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Svetlana Stampa E-mail
Scritto da Enrico Vannucci   
lunedì 09 luglio 2007

Svetlana era al lavoro. Come ogni notte. Quando il sole scendeva lei sapeva cosa fare. La casa in cui abitava era piccola. Una camera da letto, un salottino, un cucinotto che si apriva su un piccolo terrazzo e un bagno poco più grande di quest’ultimo: sessanta metri quadri scarsi. Come ogni sera, tra la confusione di tutti i giorni, lei e le sue quattro amiche, nonostante nel suo animo non le considerasse tali, spegnevano la televisione e si mettevano in fila davanti al bagno. Lei questa usanza non l’aveva mai compresa. Perché non risparmiare del tempo anticipando ciò che, comunque, avrebbero dovuto svolgere in seguito? Svetlana era l’ultima della fila. Le altre ragazze vantavano un diritto di anzianità nei suoi confronti e, in aggiunta, vivevano lì ben prima del suo arrivo; per questo, dicevano, le potevano stare davanti. Nella sua mente di ragazzina sedicenne il loro comportamento assumeva la forma di un puro e semplice dispetto. A casa nessuno l’avrebbe trattata in quel modo. Persa nei suoi pensieri, si ritrovava, senza accorgersene, sola davanti alla porta aperta. Il bagno era vuoto. Varcata la soglia, sapeva già di essere in ritardo e non potersi lavare come avrebbe voluto. Non appena chiudeva la porta alle sue spalle, le coinquiline, sbraitando, la accusavano di farle far tardi come ogni giorno. Colpa sua. Era sempre colpa sua. Tutto ciò che andava male in quell’appartamento era colpa di Svetlana. Non lo sopportava, ma se avesse tentato di controbattere, sapeva cosa le sarebbe accaduto. C’era già passata, e non aveva intenzione di provarlo nuovamente. Le piaceva truccarsi. Fin da piccola la madre la lasciava sempre giocare con un po’ di rossetto e la cipria. Davanti allo specchio osservava il viso scarno, non ancora di donna, così distaccato dal resto del suo corpo, che mostrava linee e curve accentuate. Il poco trucco che poteva usare non riusciva a camuffare la sua giovinezza, neanche se provava a pettinarsi i lunghi capelli biondi in avanti, a mo’ di schermo. Quando usciva dal bagno vedeva, come ogni sera, le altre, tutte già pronte. La più grande si avvicinava con fare minaccioso e l’intimidiva di lasciarla da “loro” se non la smetteva di essere continuamente in ritardo. Le parole che si ripetevano sempre uguali, ormai, non la preoccupavano più, erano divenute parte della sua vita quotidiana. I vestiti l’aspettavano gettati sul letto. La maggiore di tutte loro sceglieva per ciascuna. A lei toccavano sempre gli abiti che nessuna indossava più perché logori o troppo sporchi. Quella sera era stata fortunata, le era capitato il suo preferito, un abito unico di colore nero, sbiadito dai tanti lavaggi. Di giorno si sarebbe potuta vedere qualche piccola chiazza bianca, ma, la notte, non apparivano. Una grande scollatura ne mostrava il seno prorompente e la brevità della gonna, ne mostrava per intero le gambe quasi fino all’inguine. Due scarpe, con lunghe zeppe nere che la rendevano ancor più alta di quanto non fosse già, erano sbattute con non curanza ai piedi del letto. Velocemente, senza chiudere la porta dietro di sé, si toglieva la maglietta gialla limone e i pantaloncini rossi, lasciava cadere ai suoi piedi il reggiseno e le mutande bianche, calzava le scarpe e, infine, indossava il vestito rimanendo senza biancheria. Perché era costretta a indossare tutto dopo essersi truccata? Non era logico. Ma quella era la regola.
Svetlana era al lavoro. L’inizio della sera era stato buono, l’aria era calda, eravamo in estate. Non c’erano molte macchine per fortuna. Di solito il traffico sulla Via Emilia, tra Modena e Rubiera, era molto più caotico. Anche a quell’ora di notte. Soprattutto a quell’ora di notte. D’estate la gente era in vacanza. Tranne loro. Olga le sostava di fianco, come ogni sera. Non parlavano molto, non che le stesse antipatica, anzi, forse era una delle migliori, solo che non avevano granché da dirsi, a parte le stupide stesse cose. Il tempo era peggiorato e la pioggia era iniziata a scendere. Nella borsetta mancava l’ombrello, forse qualcuna gliel’aveva sottratto a casa. Non poteva certo ripararsi con una decina di profilattici, un vibratore e dell’olio per bambini. In lontananza due fari si avvicinavano, l’indicatore di direzione destro lampeggiante annunciava che una macchina si sarebbe fermata lì vicino. Era una vecchia Fiat Uno grigia. Olga si era fatta avanti per parlare ma  il conducente non la considerava. Voleva Svetlana. La ragazza bionda era contenta, saliva in macchina, scalzando l’amica. Seduta al posto del passeggero si era fermata a osservare il guidatore: un giovane ragazzo, probabilmente appena diciottenne, molto magro, dagli scuri capelli crespi, pieno di acne sul viso. La voce gli incrinata dalla forte emozione. Svetlana lo fissava, sebbene lui fosse più grande, gli ricordava lei stessa solo pochi anni prima. Gli aveva indicato dove fermarsi. Una piccola strada di campagna immersa nel buio. Il battere della pioggia sul parabrezza era incessante. Le mani del ragazzo avevano iniziato a toccarla. Nessuno l’aveva mai toccata in quel modo prima di arrivare in Italia. Per molti stranieri era l’Eldorado, per lei non lo era stato. Sì, lavorava, ma non era quello che immaginava. Ogni volta che delle mani iniziavano a sfiorarla lasciava che il suo corpo agisse da automa, provocando piacere e fingendo il proprio. La sua mente in qui momenti era distante. In un altro luogo. Osservava la vita scorrere a ritroso. Vecchie scuole elementari, due bambine giocavano nel cortile, le amiche del cuore, indossavano vecchia bigiotteria sottratta alle proprie madri e un po’ di trucco sul viso, si scambiavano  confidenze, risate, filastrocche, canzonette e girotondi. Era domenica, i fedeli sul sagrato chiacchieravano dopo la messa. La torta al cioccolato per i giorni di festa. L'enorme casa immersa nel verde, dove correva libera per le stanze inseguendo la sua gatta fino a camera sua dove sull'enorme letto, al limite del vecchio e rumoroso pavimento di legno,  riposavano gli amati pupazzi di peluche che la madre le aveva regalato da bambina. Era una piccola Alice, alla scoperta di un paese che non era mai stato realtà.
La pioggia su vetri appannati si faceva sempre più forte e il rumore assordante. Si sentiva colpita, penetrata, lacerata dentro. Povera bambina. E’ soltanto una bambina. Non ha ancora quattordici anni. Le voci del paese al funerale della madre le ritornavano in mente ogni volta che un cliente finiva. Si sentiva morire. Forse, era già morta, senza saperlo, senza comprenderlo. Tesoro mio, tesoro mio. Il dolore era lancinante, tremava tutta. Un pianto muto la soggiogava. Il volto cadaverico della tomba la scrutava come se la giudicasse. Lacrime scorrevano lungo le guance. Si sentiva sempre indolenzita alla fine, nelle membra e nell'animo. Non era durata molto questa volta. Non era colpa sua. Questa volta no. Si asciugava gli occhi con i palmi delle mani. Odiava spiegare la sua crisi a quegli uomini che erano così gentili da chiederglielo. La solita bugia li rinfrancava sempre.
Svetlana era stanca. Il cielo le aveva concesso un attimo di tregua. Non si sarebbe di nuovo bagnata. Olga era sparita. Doveva essere andata a passeggio pure lei. Abbassava lo sguardo. Il vestito si era sporcato. Forse era per questo che continuavano a passarle tutti i loro scarti. Nel suo io sperava che il sole sorgesse presto, aveva bisogno di riposo. Una macchina veniva nella sua direzione. Tanto meglio, stava iniziando nuovamente a piovere.

 

BIOGRAFIA AUTORE

Enrico Vannucci (Sassuolo, 18/02/81) è uno sceneggiatore diplomato presso il Centro Sperimentale di Cinematografia.
Laureando al Dams dell’Università di Bologna, è autore di diverse sceneggiature per cortometraggi e dello script per lungometraggio dal titolo “Occhi Bassi”, finalista al Premio Alberto Sordi 2005. Un suo radiodramma, “La Macchina dei Desideri”, è andato in onda
su Radio Rai 3. “Svetlana” ha vinto la sezione Racconti del Festival Videodromo 2004 organizzato dall'Associazione Dromoarena di Cittadella.
Nel tempo libero ha diretto qualche cortometraggio e si diletta ad essere uno degli animatori culturali dell'Associazione “Le Rune” di Sassuolo.

Qui sotto un'immagine speditaci dall'autore, con la didascalia: "Autoritratto (a.k.a. Falsificando Julian Opie)"

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