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Giuliana Sgrena: "Il velo? Le donne islamiche sono vittime" Stampa E-mail
Scritto da Laura Corallo   
giovedì 18 marzo 2010

Giuliana Sgrena
La giornalista Giuliana Sgrena
Aveva detto che in Iraq non sarebbe più tornata. Invece, a cinque anni dal suo rapimento, Giuliana Sgrena, la giornalista del  Manifesto, è tornata a Baghdad. Dal viaggio è nato un reportage che la Sgrena ha pubblicato in un libro dal titolo “Il ritorno – Viaggio nel nuovo Iraq” (Feltrinelli) e che racconta come è cambiata la vita in Iraq dopo la guerra americana, descrivendo la vita quotidiana nella terra del Tigri e dell’Eufrate. Il nome di Giuliana Sgrena è legato soprattutto all’episodio del suo sequestro avvenuto a Baghdad il 4 febbraio 2004 dall’Organizzazione della Jihad islamica. La liberazione, avvenuta un mese dopo, ha però avuto un esito drammatico. Infatti mentre l’auto sulla quale Giuliana Sgrena e e l’agente del Sismi Nicola Calipari, percorreva la  strada verso l’aeroporto, fu colpito a fuoco a un chek-point da un blindato americano. La Sgrena rimane ferita, Calipari viene ucciso. La giornalista del Manifesto ha seguito nel corso della sua carriera numerosi conflitti: Somalia, Palestina, Afghanistan, Algeria, cercando di descrivere la difficile quotidianità di uomini,  donne e bambini che vivono in terre martoriate dalla guerra.

Abbiamo incontrato Giuliana Sgrena in occasione della presentazione del suo libro all'interno della rassegna di appuntamenti con gli autori "In punta di Penna", promossa dalla Biblioteca comunale di Formigine e in collaborazione con l’associazione culturale Progettarte.

Sig.ra Sgrena, cosa l’ha spinta a tornare in Iraq dopo cinque anni?

Il ritorno in Iraq è stato un percorso sofferto. Prima di tutto volevo tornare sul luogo dove si è consumato il dramma della mia vita, cioè il sequestro di cui sono stata vittima nel 2004 e che è costato la vita a Nicola Calipari. E poi tornare a lavorare nei luoghi dove mi era stato impedito di fare il mio lavoro di giornalista dopo il rapimento. Per anni ho cercato di dimenticare l’Iraq e la sua gente. Ma con il passare del tempo ho capito che non avrei mai dimenticato e che per guarire dovevo ritornare in quella terra.
Non sono andata subito a Baghdad. Diciamo che l’ho presa un po’ alla lontana. Prima sono andata negli Stati Uniti, dove ho incontrato i soldati che hanno fatto la guerra in Iraq. Poi ho iniziato a fare reportage sui profughi iracheni in Siria e Cisgiordania. Infine sono stata un po’ di tempo in Kurdistan, ma la regione dei curdi è diversa dall’Iraq e non mi ha aiutata. Solo quando mi sono sentita pronta interiormente sono partita per Baghdad. Perché era lì che dovevo andare. E una volta arrivata ho scoperto che quei luoghi mi erano rimasti dentro più di quanto immaginassi.
Quali differenze ha trovato rispetto al 2004?
L’Iraq è rimasto uguale dal punto di vista della distruzione. Dopola guerra non c’è stata una vera e propria ricostruzione. Infrastrutture importanti (ad esempio i ponti e le fognature) non sono stati ripristinate. Il governo non si è ancora impegnato per sopperire alla mancanza di forniture di servizi come l’energia, l’acqua e l’elettricità che in molte zone del paese sono utilizzabili solo per 4–5 ore al giorno. La disoccupazione è diffusa in tutto il paese. Tanti medici e professori universitari hanno abbandonato Baghdad durante la guerra e non sono più tornati.
In positivo invece ho trovato una città piena di gente e mi ha colpito la voglia degli iracheni di riconquistare la propria libertà. La gente ha ripreso a vivere e si respira una relativa sicurezza percepibile già all’inizio dell’anno scorso. Oggi Baghdad è una città viva, piena di iniziative. Sono stati aperti nuovi locali e luoghi di ritrovo. Nonostante gli attentati sanguinari le famiglie passeggiano nei parchi pubblici e sulle rive del Tigri. Ho visto ragazzi e ragazze che si divertivano, scattavano fotografie. Oggi l’Iraq sta tornando a essere il paese laico che era sotto Saddam.
Nel suo libro parla anche della condizione delle donne irachene.
Dopo la fine della dittatura di Saddam Hussein le milizie islamiche del nuovo governo hanno instaurato un regime di terrore in cui a pagarne le spese sono state soprattutto le donne. In questo periodo i loro diritti sono stati azzerati perdendo completamente la libertà che avevano durante il governo di Saddam. Sono state obbligate a rimettersi il velo, a non poter più guidare, e soprattutto a non potersi vestire come volevano. Oggi invece le donne sono uscite allo scoperto. Hanno tolto il velo, vestono all’occidentale, le ragazze indossano i jeans. Molte donne hanno ripreso gli studi, tante sono iscritte alla facoltà di Medicina. Certo, i processi di crescita richiedono tempo. Ma il paese è sviluppato e ricco e sta percorrendo la strada giusta.
In Italia si parla da anni della questione del velo indossato dalle donne islamiche. Qual è la sua opinione?
Io sono contraria al velo ma non sono contro le donne che portano il velo. Il velo è un simbolo dell’oppressione delle donne. Non è imposto dalla tradizione (che comunque si supera) ma è un velo ideologico perché risponde a dettami politici più che di religione. Le donne musulmane alle quali viene imposto il velo sono vittime di un processo di reislamizzazione condotto dalle forze islamiche più tradizionaliste.
A mio parere la questione del velo si affronta con apposite leggi sui simboli religiosi. E’ già accaduto in Francia con una legge entrata in vigore nel 2004, la cosiddetta legge della laicità e che ha messo al bando dalle scuole pubbliche il velo islamico e tutti gli altri simboli. In questo modo la Francia, Stato laico, ha risolto il problema allontanando la religione dalle scuole per evitare le discriminazioni.
In Italia è difficile che accada la stessa cosa perché il nostro non è un paese così laico come la Francia. Se lo Stato dovesse emanare una legge per togliere il velo e quindi i simboli religiosi, dovrebbe togliere anche il crocefisso dalle scuole e dai luoghi pubblici. E questo è un rischio che l’Italia non può correre.
Recentemente nel Modenese, nel giro di pochi mesi, due adolescenti islamiche hanno denunciato prevaricazioni e minacce da parte della famiglia che non accettava il loro modo di vivere “all’occidentale”.
Cosa bisogna fare per aiutarle?

La prima cosa da fare è garantire alle nuove generazioni i loro diritti e leggi di protezione. Tante donne rischiano di essere uccise perché non accettano le imposizioni della famiglia. Il coraggio di denunciare di queste ragazze è importante ma non basta a salvarle la vita. Basti pensare a Hina e Saana, le ragazze uccise dai propri padri in nome della sharia o delitto d’onore. Se le donne non hanno la garanzia di essere protette avranno sempre meno possibilità di ribellarsi alle imposizioni.



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