Parla Maria Fida Moro, primogenita del leader Dc ucciso trent’anni fa: “A tutt’oggi le istituzioni negano la nostra esistenza, come quando hanno negato l’intitolazione dell’università di Bari al suo nome”. E ancora: “Gesù Cristo, Gandhi, Luther King, la Bhutto: la storia mostra che i pacificatori devono morire...”
A trent'anni dalla scomparsa dello statista Aldo Moro, rimangono ancora senza risposta i tanti interrogativi legati agli eventi di quella mattina, il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, quando le Brigate Rosse sequestrarono il politico democristiano dopo aver massacrato gli uomini della sua scorta. Per cinquantacinque giorni Aldo Moro fu tenuto in una "prigione del popolo", fino al 9 maggio, fino a quando, poco dopo le 10, il suo corpo senza vita fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata simbolicamente a metà strada tra via delle Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, tra la sede della DC e quella del PCI, in via Caetani. Aldo Moro, cattedratico e uomo politico, segnò profondamente la storia italiana del dopoguerra, e alcuni politologi affermano che la cosiddetta "Prima Repubblica" sia morta il 9 maggio di quel tragico 1978 e non qualche anno più tardi con Tangentopoli. Moro fu il principale artefice della politica di centro-sinistra, più volte ministro e presidente del Consiglio. Coprì, nel 1976 la carica di presidente della Democrazia Cristiana favorendo l'avvicinamento del Pci al governo.  Maria Fida Moro (foto Mihai Romanciuc)
La strage di via Fani può essere annoverata a pieno titolo tra le stragi impunite in Italia. Nonostante vari processi siano riusciti ad arrivare e condannare i responsabili del sequestro rimangono ancora tante zone d'ombra. Negli ultimi anni sono stati pubblicati libri ed interviste dedicate alla vicenda di Moro che rivelano "verità alternative" rispetto a quelle già accertate nelle sentenze giudiziarie. "Il Sassolino" ha intervistato Maria Fida Moro, primogenita del leader democristiano che ha dedicato la sua vita alla memoria di suo padre. Fu lei a chiedere la riapertura delle indagini, pur confidando unicamente sulla giustizia divina. Maria Fida Moro è anche la madre di Luca, il nipote più volte citato nelle lettere dal carcere brigatista da Aldo Moro e che all’epoca dei fatti aveva due anni. Signora Moro, sono passati trent’anni dall’assassinio di Aldo Moro e ci si interroga ancora sulle ragioni e, soprattutto, i mandanti del sequestro e poi dell’omicidio di suo padre. Sì, possiamo dire che quello che è successo quel 16 marzo1978 resta un mistero ancora tutto da chiarire. Sono convinta che se mio padre fosse vivo lo ucciderebbero ancora. Quando mio padre apparve sulla scena politica si creò subito un clima ostile nei suoi confronti che non si è mai interrotto, neanche dopo la sua morte. Dal quel tragico giorno io, mia madre e i miei fratelli, sopportiamo quotidianamente l’ingiustizia, l’odio e la rabbia che tanti versavano su mio padre. A tutt’oggi, le istituzioni negano la nostra esistenza: dai mancati inviti alle occasioni ufficiali fino alla decisione della Facoltà di Giurisprudenza di Bari, dove mio padre ha conseguito la laurea in legge ed ha insegnato in qualità di professore di Filosofia del Diritto, di negare l’intitolazione dell’Università degli Studi di Bari alla sua memoria, cambiandone l’intestazione in “Università del Levante Aldo Moro”. Credo che il progetto politico di mio padre ha dato talmente fastidio da risultare scomodo persino dopo trent’anni dalla sua morte. Aldo Moro fu indicato come “la chiave di un disegno politico che avrebbe salvato l'Italia". Forse, negli anni ’70 il nostro Paese non era ancora pronto ad accogliere una politica di apertura ed innovazione come suo padre proponeva. Se Aldo Moro fosse vissuto nel nostro momento storico le sue idee avrebbero trovato maggiori riscontri? Non credo. Sono sicura che mio padre sarebbe stato ucciso in ogni modo, perché i pacificatori devono morire. A cominciare da Gesù Cristo, fino al Mahatma Gandhi, Martin Luther King e, pochi mesi fa, Benazir Bhutto, assassinata per la sua politica scomoda. La storia ci insegna che chi ha sostenuto idee e politiche favorevoli ai diritti dell’umanità ha sempre pagato un caro prezzo. Mio padre è stato l’artefice di un progetto di politica europeista, talmente notevole e lungimirante da impedirgli di portarlo a termine. Il suo proposito di aprire ai comunisti di Berlinguer era solo una delle tanti voci che componevano il suo progetto.  Un famigerato scatto di Moro Lei ha incontrato al carcere di Rebibbia alcuni componenti del commando che sequestrò Aldo Moro, ed ha concesso loro il perdono. Quale significato ha avuto questo gesto nella sua vita? Li ho perdonati per tre ragioni. La prima è che sono profondamente cristiana e per i cristiani perdonare è un obbligo. La seconda è che mio padre lo avrebbe fatto al mio posto. La terza ragione è che mi aveva insegnato che la pena, per non trasformarsi in vendetta, deve essere riabilitativa. Se non si perdona non si può vivere, e bisogna partire dal perdono verso sé stessi. Ognuno deve trovare il coraggio di superare il dolore individuale per alleviare il dolore altrui. Non esistono “mostri”. Esistono persone che hanno sbagliato.
Quanto è importante per i giovani ricordare la figura e la storia di Aldo Moro? Mio padre era un educatore ed un professore eccezionale. I giovani dovrebbero conoscere la storia del nostro paese così come le figure positive di riferimento. Mio padre era una persona di estrema bontà, uno straordinario esempio di umanità. Credo che finché il Paese non si sarà assunto la sua parte di responsabilità in questa vicenda l’Italia non potrà uscire dal guado.
|