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Montermini, "la mia vita a 300 all'ora" Stampa E-mail
Scritto da Leo Turrini   
martedì 09 maggio 2006
Il pilota nostrano Andrea Montermini ci racconta la sua storia, tra vittorie, incidenti, delusioni. E poi Jackie Stewart, Alain Prost, Nigel Mansell…

C’era un ragazzo che, come me e come magari molti tra voi, amava sì i Beatles e i Rolling Stones. Ma aveva pure una sfacciata passione per la velocità . E forse è stata soltanto la mancanza del classico pizzico di fortuna ad impedirgli di salire sulle vette dell’automobilismo sportivo. Eppure, Andrea Montermini, mezzo sassolese e
mezzo di Roteglia, figlio di una signora di San Michele dei Mucchietti e di un signore della sponda reggiana del Secchia, ha corso in mezzo a gente come Michael Schumacher, Rubens Barrichello, Emerson Fittipaldi,
Nigel Mansell. E senza mai sfigurare, perché il talento c’era tutto, c’era per intero.
La sua, cioè quella di Andrea, è una storia molto bella, quasi romantica nella sua declinazione. E’ il racconto di una avventura che avrebbe sicuramente meritato pagine trionfali, sottratte invece alla lettura dei contemporanei da quel minuscolo accidente della vita che ci ostiniamo a chiamare caso, fato, destino.
Da dove cominciamo? Cominciamo lasciando la parola a lui, che in macchina ci va ancora e corre ancora e ha addosso la smania di sentirsi rapido, di sentirsi vivo, di sentirsi protagonista. In fondo, per chi ama il
brivido della velocità non fa differenza, se la prossima curva è quella di un famosissimo Gran Premio o di una competizione Gt non troppo popolare al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori.

Montermini e il suo casco
Andrea Montermini, metà sassolese e metà reggiano
 


“Va bene, facciamo che io detto e tu scrivi - sospira Andrea -. Forse la mia è una esistenza che somiglia a tante altre, nel senso che non credo di essere l’unico soggetto divorato dalla passione maniacale per le corse. Siamo in tanti e immagino che saremo ancora in tanti, ci sono cose che semplicemente non si possono spiegare, non finiranno mai perché appartengono alla stessa identità collettiva del genere umano.
Ero un bambino e diventavo matto per le macchinine, ci salivo sopra e pigiavo sui pedali come un forsennato. Adriana, la mamma, mi guardava e probabilmente pensava che mi sarebbe passata presto. Lucio, il fratello più piccolo, ha sei anni in meno e presumibilmente mi compativa, a lui dell’automobilismo non è mai fregato niente. Invece papà, che di nome fa Paolo, può darsi che qualcosa avesse intuito.
Un giorno d’estate andammo a fare una gita dalle parti di Carpineti. Entrammo in un bar per un gelato e mi ricordo che alla parete c’era un televisore. Stavano trasmettendo una corsa di Formula Uno. Ero proprio piccolo, gareggiava ancora Jackie Stewart, il mitico scozzese che si ritirò dalla attività nel 1973. Io rimasi incantato davanti al video e feci una promessa a me stesso: finalmente avevo capito cosa volevo fare da grande.
Il tempo è passato e questo morbo della velocità  non mi mollava. Ero amico di Fabrizio Giovanardi, sì, il sassolese che tanto ha vinto nelle categorie del Turismo. Lui aveva cominciato con i kart e allora io me
ne ero comprato uno e lo tenevo nascosto nel suo garage, per evitare che mio padre mi piantasse un casino. Poi seguivo Fabrizio alle gare e trovavo la maniera di esibirmi, quasi di nascosto.
Forse ho cominciato a fare le cose troppo tardi, forse se mi fossi buttato da ragazzino certe strade si sarebbero aperte, si sarebbero trasformate in autostrade. Comunque, avevo già  ventitrè anni quando mi iscrissi ad
un corso della Csai, che sarebbe un po’ la federazione dell’automobilismo sportivo. Mi videro guidare e mi dissero: beh, giovanotto, per il kart potresti sembrare un nonnino, ma con le macchine vere hai tutto il
diritto di provarci. E perché no? Mio padre, sempre pensando che una volta levatomi lo sfizio sarei tornato ad un mestiere più serio, ha lasciato fare. Sono trascorsi altri vent’anni e di essere pilota non ho smesso più.
La prima categoria seria era l’Alfa Boxer. Un delirio. Alla quarta gara, a Monza, ho vinto. Sono salito sul gradino più alto del podio. Mi sono guardato attorno. Perché non dovevo continuare? Mi accorgevo che al volante me la cavavo e non è che in circolazione ci fossero dei super fenomeni. Avanti, mi sono detto: avanti, senza paura.
I miei amici dicono che lo spavento più grosso l’ho patito a Barcellona, nel maggio del 1994. Ero appena arrivato in Formula Uno e la Simtek, una scuderia minore, mi aveva ingaggiato per sostituire il povero Ratzenberger, il pilota austriaco che era morto a Imola il giorno prima di Ayrton Senna. Voglio essere sincero: io,
dell’incidente di Barcellona, non ricordo un accidente. Mi risvegliai in ospedale, il botto accadde il venerdì mattina durante le prove libere e so che al circuito mi avevano dato per morto. Era un periodo terribile per la F1,
meno di un mese prima c’erano state le disgrazie di Imola e da due settimane Wendlinger era in coma, per un incidente a Montecarlo.
Per me, la paura più pesante si chiama Ferrari. E si abbina alla memoria migliore della mia carriera. Era il 1991 quando Cesare Fiorio mi selezionò come collaudatore della Rossa. In pratica, ero il terzo pilota della squadra, dopo Alain Prost e Jean Alesi. E’ stata una esperienza fantastica, che mi ha dato tantissimo, sia in termini umani
che professionali. In un paio di stagioni, ho percorso più di dodicimila chilometri, al volante del Cavallino.
Dicevo della paura: eravamo al Mugello per un test, ad un certo punto, in pieno rettilineo, la macchina ha piegato a sinistra e buonanotte. A sinistra c’era un muro, io ho strisciato contro quel muro per tre o quattrocento metri e intanto le gambe erano uscite dalla scocca e pensavo, addio, adesso mi frantumo. Invece, per miracolo, non mi sono fatto niente.
Il biennio in Ferrari mi ha anche permesso di mettere bene a fuoco le cose. Sai chi era un mio collega di collaudi? Un certo Damon Hill. Lui svolgeva lo stesso mio lavoro, ma con la Williams. Beh, a Damon, che è un amico e che è molto forte, è stata offerta l’opportunità  di diventare pilota titolare del team. E si è laureato campione del mondo, nel 1996. Io lo ammiro, è stato bravo, ha meritato quanto ha ottenuto. Ma a me, una chance così non l’hanno data mai.
Non voglio fare il piangina. Non sono un tipo lamentoso. Metto in fila gli eventi. Lo sai che in Formula
3000 ho avuto come compagno di scuderia un certo Rubens Barrichello? In una stagione, quattro vittorie per me e zero per lui. Però, alla fine dell’anno, lui è sbarcato in pompa magna in Formula Uno, semplicemente perché aveva alle spalle grandi sponsor. Io non li avevo e sono rimasto indietro. Non sono l’unico.
Ecco, questo direi ad un ragazzino sassolese che avesse nel cuore la passione per il mestiere di pilota: ehi, va benissimo, divertiti, mettici l’anima, ma quando arrivi a diciotto o vent’anni verifica se hai alle spalle qualcuno che possa contribuire finanziariamente alla tua carriera.
E’ inutile negare l’evidenza: nell’automobilismo, il talento da solo non basta, non è sufficiente. Per arrivare, devi avere qualcuno che ti spinge, che copre le spese, che non ti fa mancare le risorse. Io, francamente, non me la tiro per niente, sono una persona normale, mi resta solo un dubbio: cosa avrei fatto in F1, al posto di Barrichello, se avessi avuto i soldi?
In F1 ho guidato macchine senza mezzi, dalla Simtek alla Pacific alla Forti. Non c’era trippa per i gatti e lo sapevo. Così la soddisfazione più grande della carriera è una vittoria strepitosa a Spa, sul circuito più bello del mondo, nel 1992. Ero in Formula 3000 e ricordo che c’eri anche tu, là sul traguardo. Fu una grande impresa,
a Spa, sulle Ardenne, se non sei un manico vero non puoi nemmeno pensare di vincere. E non dimentico un quarto posto in Formula Indy, in America, nel 1993, con una monoposto dell’Euromotorsport. Se vai a
controllare l’ordine d’arrivo, eravamo a Detroit e il sottoscritto ha preceduto Nigel Mansell e Emerson Fittipaldi, mica due sfigati transitati per caso nei paraggi.”
In epoca più recente, è stata bella la vittoria con una Ferrari nella 1000 chilometri di Le Mans, nel 2004.
Adesso mi sono specializzato nelle competizioni a ruote coperte, come diciamo noi maniaci. Quest’anno, con la Ferrari 430, parteciperò al concorso internazionale delle Le Mans Series. E mi sono iscritto anche al campionato italiano, con una Saleen. In pratica, non sto fermo un minuto.
Smettere? Ma per carità! Mi piaccio troppo quello che faccio. Mi diverto. Mi sento giovane. Adesso ho 42 anni, ma come pilota sono un pivellino, proprio perché ho iniziato molto tardi, almeno rispetto alla media. Un trentenne non ha il mio fisico, sono disposto a scommettere.
Il privato? Rigorosamente single, addirittura sono anche senza fidanzata, la mia casa è quella di famiglia, sempre a Roteglia, sponda reggiana del Secchia, in fondo tutto è cominciato proprio lì.”



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