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Vallo a chiedere ai Foster Stampa E-mail
Scritto da Giuseppe Sofo   
mercoledì 22 giugno 2005


(Questo racconto è un capitolo del romanzo“Dollville - Racconto teatrale”, Sassuolo, Incontri Editrice, Sassuolo 2004)

 

Pioveva il 6 Gennaio di sette anni fa. Alex Foster, marito di Jane Foster, nonché padre di Molly, Venus e Stanley Foster, morì per primo.
  Non che avesse fatto granché per meritarselo, per carità, però in quel giorno piovoso ci stava bene che qualcuno morisse.
  C’era quel clima da film di Kurosawa. La pioggia, l’oscurità, qualche albero di ciliegio fiorito, in perfetto stile giapponese. E non provare a dirmi che i ciliegi non fioriscono il 6 Gennaio, perché tu non ci sei mai stato a Dollville e ti assicuro che lì i ciliegi fioriscono proprio il 6 Gennaio, all’ora dell’arrivo dei re magi e poi muoiono durante la notte.
  Era tanto kurosawiano come clima che quello stronzo d’un giapponese volle i diritti sull’opera. Si permise anche di reclamare, dicendo che “un buon film di samurai ha bisogno di qualche testa tagliata”.
  Si sa che a Dollville non amano le lamentele, quindi decisero di tagliare la testa al toro. Anzi… al Foster.

  Per questo tagliarono la testa ad Alex Foster, discendente di una delle famiglie storiche della città.
  Ryuichi Han prese tra le mani una magnifica spada forgiata dai nani scandinavi, che aveva comprato al mercato nero qualche anno prima e tranciò di netto il collo di Alex Foster.
  Tutti si aspettavano che avrebbe sanguinato a dismisura, ma Alex Foster abitava da sempre a Dollville e conosceva i suoi abitanti. Per questo decise, per evitare problemi, di non sporcare il suolo della sua città, trattenendo il sangue nel collo. – “Proprio un bravo cittadino, quel morto”, disse lo sceriffo.

  Il problema nacque dopo: Ryuichi ci prese gusto. Diceva che quella spada era proprio uno spettacolo e che sarebbe stato un peccato sprecarla solo per tagliare la testa ad Alex Foster.
  – “Una lama così affilata richiede come minimo un genocidio”, disse. Ci si rese però ben presto conto che il genocidio avrebbe comportato l’uccisione di tutti gli abitanti di Dollville, visto che in quel periodo non c’erano altre città nei dintorni.
  Si decise dunque che per “genocidio”, da quel momento in poi, sarebbe stato inteso nel lessico quotidiano di Dollville “omicidio di un’intera famiglia, la famiglia Foster”.
  Una commissione di linguisti fu incaricata di risolvere il problema, modificando la definizione del lemma “genocidio” su tutti i vocabolari di Dollville. Non che fosse poi un gran lavoro, esistendone solo uno: un po’ di bianchetto, una penna cancellabile (non si sa mai…) e via.

  Appena concluso il lavoro dei linguisti, Ryuichi si avviò verso casa Foster.
  Lanciò il vocabolario per terra, tra la sabbia alzata dal vento e il rintocco sordo delle campane di un mezzogiorno bollente.
  Un sole profondamente rosso si alzava alle sue spalle; le urla dei film di Sergio Leone e i fagioli dei film di Bud Spencer e Terence Hill accompagnavano il suo cammino. Gli zoccoli di migliaia di puledri attraversavano il suo respiro. Sofia Loren e la regina d’Inghilterra Elisabetta Tudor gli mandavano baci con le mani, soffiandoli sui loro guanti.
  Petrarca e Ronsard composero in ottave siciliane l’inno della sua traversata del centro di Dollville, musicata con la decima sinfonia di Ludwig van Beethoven per la voce dell’arcangelo Gabriele.
  In quell’istante: nevicò.

  Piccoli fiocchi di neve cominciarono a cadere sulla lama della meravigliosa spada nordica che Ryuichi teneva tra le mani, con il volto chinato a guardare la terra brulla che calpestava, senza lasciare un’impronta.
  Il vento continuava ad alzare la sabbia, ormai bagnata dalla neve, che si infilava tra gli occhi di Ryuichi, non coperti dalla bandana che portava sulla bocca.
  Alzò gli occhi; dritto davanti a lui, casa Foster. Lì dentro, Jane Foster rimboccava le coperte ai tre figli, Molly, Venus e Stanley, che non sapevano ancora niente della morte del padre.
  Jane uscì, con la bambola di Molly tra le mani. Lacrime secche le scivolavano tra gli occhi e le labbra, su un viso bello come pochi, anche se segnato dal sapore del vento e della sabbia di Dollville.
  Era pronta a strappare la testa di Ryuichi a morsi per difendere la sua famiglia, le sue bambine e il suo piccolo uomo.

  “Facciamola finita, Ryuichi”
  “Ok, baby”
  “Tu vuoi me. Eccomi”
  E mentre parlava, con un gesto da guerriero intrepido, si levò il mantello di velluto che portava, svelando lo splendido corpo nudo che Ryuichi conosceva bene.
  “Questo è un colpo basso, baby. Lo sai quanto ti adoro”
  “Da quanto tempo sogni questa vista? Dall’ultima volta, non è vero? Dall’ultima notte di tre anni fa”
  “Esatto, piccola”
  “Eccomi. Ora sono tua”

  Non sarebbe certo stato facile resistere al fascino e alle forme di Jane, soprattutto per chi come Ryuichi, l’aveva amata per anni. Lui aveva un compito, però. Era stato incaricato di portare a termine un genocidio (adorava quella parola) e non si sarebbe mai potuto fermare prima di far fuori tutti i Foster, uno per uno.
  Decise dunque di continuare con il suo piano, ma pensò che in fondo per farli fuori ci sarebbe stato tempo.
  Lui e Jane Foster restarono dal tramonto all’alba nel cortile di casa Foster, ansimando a turno e ripassando tutti i giochetti dei vecchi tempi.
  Quando il sole tornò a mezz’aria, con lo stesso colore rosso profondo che aveva avuto la sera prima, Ryuichi lanciò uno sguardo verso l’alto con la coda dell’occhio e capì in un secondo che era arrivato il momento.
  Diede un ultimo bacio a Jane, sdraiata sul fianco tra l’erba e la sabbia e toccò il suo cuore nel profondo, con la fredda lama scandinava che riposava lì accanto e che si lamentò per l’orario nella quale era stata utilizzata, contrario al contratto.

  Nessuno a Dollville volle sapere che fine fecero i figli dei Foster; non se ne parlò mai. Da quelle parti rabbrividiscono solo al pensiero che si possa parlare di male fatto a degli innocenti. Tutti, però, sapevano che erano morti.



 
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