Senza titolo (2° classificato) |
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Scritto da Manuel Mazzacani
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domenica 16 ottobre 2011 |
Erano da poco passate le otto, quando rincasai. I piccoli pezzi di vetro che erano conficcati nel braccio mi infastidivano e non poco. Feci una doccia lunga, calda, di quelle che non ti fai tutti i giorni. Di quelle che lavano via colpa, dolore e rimorso. Andai a letto senza mangiare nulla anche se lo stomaco brontolava. Chiusi gli occhi. Era finita. Il treno di prima mattina è sudicio più che nelle altre ore del giorno. Assorbe l’umidità della notte e la puzza stagnante dei magazzini. Il controllore, tale Carlo, che a malapena saluto, mi squadra come di consuetudine prima di obliterarmi il biglietto. Sono 17 anni che mi vede ma evidentemente non si è ancora abituato alla mia tuta azzurra. Arrivo in portineria e saluto Matteo. Mi è simpatico e due volte la settimana lo passo a trovare nel suo piccolo monolocale per una bevuta e due chiacchiere. 10 anni che è lì, a timbrare i cartellini degli operai. Ha perso il sorriso da tempo ma tira avanti, in fondo. Suona la sirena e tutti ci dirigiamo al macchinario. In fila come tante auto in coda al casello. La porta è stretta e passano solo due o tre alla volta. Il lavoro è duro, ma semplice. Assembli i pezzi, passi al macchinario, clicchi un bottone e ottieni il prodotto. Si chiama produzione seriale. Mi fermo di tanto in tanto per asciugarmi la fronte. Penso alla mia vita prima di tutto questo. Le mie aspirazioni, ciò che avrei voluto vedere e che da domani non vedrò più. Tagli necessari all’azienda, hanno detto. Più guardo il macchinario e più penso che anche noi come i nostri prodotti veniamo costruiti in serie. Prima vieni assemblato, poi partorito e, se sei abbastanza fortunato, destinato a un fine migliore come il motore dell’auto di un pilota o il microscopio di un grande scienziato. Gli operai no. Li prende la macchina scuola, fa vedere loro cosa sarebbero potuto diventare, lo stato ti etichetta e ti spedisce dove lo ritiene opportuno. Ed infine esci nel mondo con addosso solo una tuta blu e un cartellino. Produzione seriale di operai la chiamo io. Poi, come per tutti i prodotti, la richiesta diminuisce. E il tuo ruolo diventa niente. Cosa mi aspetta domani? Il mondo, la storia hanno già parlato. Mi hanno dato una posizione sociale, mi hanno detto ciò che posso o non posso fare. È ora di presentare il conto. Scoccano le sei e i miei colleghi si precipitano fuori come durante un incendio. Il sudore mi devasta la fronte. Continuo a ripetermi che è la cosa giusta. La casa del direttore è enorme da fuori. Siepe alta, un bel giardinetto all’italiana, mura coperte di finta pietra, scura e rugosa. Ho la tanica in mano. Lui e la sua famiglia sono usciti. Qualcuno la deve pagare. Vent’anni di vita cos’è che valgono?! Il botto è fragoroso. I vetri che schizzano via mi tagliano la carne. Torno a casa. Erano da poco passate le otto quando rincasai. I piccoli pezzi di vetro che erano conficcati nel braccio mi infastidivano e non poco. Forse quel pugno nel vetro della mia finestra non dovevo darlo in fondo… Perché non l’ho fatto? Io non so niente! Se lo sapessi ve lo direi. Io sono un vigliacco lo sanno tutti. Ma almeno domani potrò di nuovo alzare la testa ed essere me stesso, senza l’etichetta di assassino addosso alla mia tuta. Era finita.
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