AVATAR, di James Cameron
Scritto da Chiara Fiorentini   
lunedì 22 febbraio 2010
 AVATAR, di James CameronAvatar, di James Cameron

USA 2010

Con Sam Warthington, Sigourney Weaver, Zoe Saldana, Stephen Lang, Joel Moore

 

Voto:

6,2

Sceneggiatura di James Cameron

SINOSSI: anno 2154, i terrestri hanno stabilito una loro base sul pianeta di Pandora. Il loro scopo è estrarre un prezioso minerale che vale venti milioni di dollari al chilo. Sul pianeta vive una popolazione indigena, i Na’vi, che amano la loro terra e l’energia che scorre in essa. La loro tribù però vive su un enorme albero posto proprio sopra il più grande giacimento minerario di tutto il pianeta. Jake Sully assieme ad altri scienziati deve riuscire a entrare in contatto con loro e a convincerli a lasciare la loro casa. Per riuscirci usano degli avatar (dei Na’vi creati in laboratorio e controllabili a distanza), Jake riuscirà ad ottenere la fiducia della popolazione ed a diventare uno di loro. Capirà la loro bellezza e si innamorerà della figlia del capo. Ma i terrestri vogliono il loro nuovo oro nero e non useranno le buone maniere per ottenerlo.

Devo essere sincera. Non posso iniziare a parlare di Avatar senza aver fatto una confessione. Non sarebbe intellettualmente onesto farvi credere che il mio sia un giudizio totalmente imparziale. Non sopporto il 3D: lo trovo visivamente fastidioso, concettualmente opposto all’idea che negli anni mi sono fatta della settima arte (un cinema in cui è la regia a piegare la tecnica a favore di un idea di immagine artistica e non viceversa) e non ritengo che sia il futuro del cinema, e non solo perché è una tecnica che ha più di cinquant’anni. Ma avremmo modo di parlarne più avanti. Conclusa questa doverosa premessa passiamo a parlare della pellicola.

Avatar non è un film brutto. Ma non per questo è un bel film. La storia è molto semplice se la si osserva bene: i bianchi sono dei cattivoni colonialisti che vogliono estrarre dal terreno un minerale che gli fa fare tanti bei soldi. Che sia oro, carbone, petrolio o unobtanium non importa, è solo la storia che si ripete. Il cattivo uomo bianco arriva, distrugge le popolazioni native (questi selvaggi che non capiscono nulla perché vivono a contatto con la natura e non hanno idea di cosa sia un BigMac). Pretendono di sottometterli, portargli via tutto e poi di essere pure ringraziati. Non è molto originale come storia. E dall’altra parte ci sono gli indiani ovviamente - o meglio i nativi americani (li ricordano pure nelle chiome e nei costumi) – i Na’vi. Gli abitanti di Pandora. Puri, innamorati della natura e fortemente collegati ad essa: alla loro dea Eywa, che tutto lega in un enorme rete di energia che collega gli esseri viventi (internet?). Noi, i cattivi, mandiamo là degli avatar, ovvero dei Na’vi creati in laboratorio, collegati attraverso dei macchinari a degli scienziati che hanno il compito di studiare Pandora e i suoi abitanti. Fondamentalmente per convincerli a sloggiare. Uno di loro sarà scelto dalla dea Eywa e gli verrà permesso di imparare i loro usi e entrare a far parte della loro comunità. Ma i cattivi sono sempre in agguato e non tarderanno ad arrivare con la loro forza distruttrice.
Si potrebbero dire molte altre cose sul film: quell’allusione a internet di poche righe fa infatti ha le sue motivazioni. Chi è Eywa? È una divinità che regola l’energia e il suo equilibrio in una grande rete che connette tutte le creature viventi. E cos’è internet se non una “rete informatica interattiva a livello mondiale” (definizione del Dizionario)? La connessione tra queste due reti è ancora più evidente se si osserva il modo in cui i Na’vi si collegano alle altre creature: allacciando la loro terminazione nervosa presente nelle trecce con la Flora e la Fauna di Pandora. Tecnicamente loro si connettono. Si crea un interfaccia mentale tra il Na’vi e la creatura con la quale entrano in contatto e che riescono a governare con la forza del pensiero proprio grazie a questa connessione. E attraverso di essa, specie quando cavalcano Pa’li e gli Ikran, creano degli altri avatar. Non c’è molta differenza tra i collegamenti mentali, tecnologici e biologici che legano i terrestri ai loro avatar e quelli che i Na’vi sviluppano tra loro e il mondo. Si potrebbe quindi sostenere che questa pellicola sia una grande metafora della nostra società mediatica e mediatizzata. E questo aspetto è probabilmente l’elemento più interessante del film.

Passiamo però ora alle note dolenti. Il problema più grosso del film sta a livello dell’immagine. In primis non mi è ben chiaro perché durante la notte tutto si colori di tinte fosforescenti. Sembra che migliaia di squilla brilla o di luci fluorescenti per la pesca notturna si accendano tutti in un sol colpo. Ma questo è solo un dettaglio. Non si può negare che questa pellicola sia visivamente “eccitante”, ma è davvero merito di questo osannato 3D? non si sarebbe potuto tranquillamente fruire di questa pellicola anche senza di esso? la verità è che Avatar è solo un altro Blockbuster con un ottimo lavoro di marketing dietro. Dirò di più: il 3D è una grossa operazione di marketing e nulla più. È una tecnologia che ha più di cinquant’anni e in tal senso l’aura di novità che la circonda è un aura fallace, è solo un trucco. Ciò che è cambiato dagli anni cinquanta a ora sono solo gli occhialini: non più di carta ma di plastica e con le lenti tutte nere invece che colorate. Pure l’immagine tridimensionale è solo una riproposizione di vecchi modelli di visione: la prospettiva rinascimentale. Questo è evidente specialmente nelle scene in interno dove tutti i contorni degli oggetti rimandano al famoso punto di fuga teorizzato dall’Alberti. Il problema è che l’arte del novecento ci aveva insegnato a non rifarci più ai modelli ottocenteschi di rappresentazione del mondo. Ci aveva insegnato a vedere la bellezza di una ruota di bicicletta o di un orinatoio (ci riferiamo alle opere di Duchamp) a riuscire a scomporre il mondo in modi nuovi che non rispettavano i parametri della bellezza classica con Picasso. E il cinema cosa fa? Cosa vede nel suo futuro? Una tecnologia che basa la sua profondità su una parvenza di realtà fondata su un modo di rappresentazione oramai vecchio e superato? Una parvenza di realtà perché la percezione creata dalla prospettiva rinascimentale non coincide con la percezione dell’occhio umano. Quindi nemmeno di immagine realistica si può parlare. Il 3D non è quindi solo una tecnica degli anni cinquanta del secolo scorso, ma si fonda pure su un modo di rappresentazione del mondo di ormai due secoli fa. Ma queste sono questioni puramente concettuali che, probabilmente, poco si confanno a un prodotto/tecnologia rispolverata per riportare al cinema il grande pubblico. Abbandoniamo quindi queste discussioni intellettualoidi e torniamo ad Avatar. Dicevamo che il problema di questa pellicola risiede nel 3D. Il problema è che per quanto innegabilmente spettacolare, in molti tratti – in particolar modo nelle frenetiche sequenze nella foresta di Pandora – i vari livelli dell’immagine sembrano scollegati tra di loro. C’è un piano molto stretto delle foglie, e dietro quello in cui si muovono i personaggi. Il problema è che, volendo incentrare il fuoco della scena sui due protagonisti, il piano più vicino al pubblico – posto lì secondo la regola “se ti spiaccico qualcosa davanti agli occhi tu spettatore ti rendi conto che c’è una profondità in quel groviglio di piante” – risulta sfocato rispetto al resto dell’immagine, rendendola fastidiosa all’occhio. Il che porta a una sospensione della sospensione dell’incredulità su cui si fonda il meccanismo di narrazione cinematografica. Se questo fastidio si limitasse a un paio di episodi il problema non sarebbe poi tanto grave, ma invece si ripete a intervalli regolari rendendo il tutto fastidioso. Ci sarebbe molto altro da dire sulla tecnologia del 3D ma non credo sia opportuno allungare ulteriormente il discorso con disquisizioni che ci distanzierebbero eccessivamente dalla pellicola in esame.

Parlando di Sherlock Holmes a dicembre si diceva che non c’era nulla di male ad andare a vedere un film solo per divertirsi. E questo concetto lo si può benissimo applicare pure ad Avatar. L’esperienza del film è sicuramente di intrattenimento. Il motivo per cui si riusciva a parlare bene della pellicola di Ritchie non lo si può però riversare pure su quest’ultima fatica di Cameron. Perché mentre Ritchie non cercava nulla di più del semplice intrattenimento, il pluri premiato Cameron ha scatenato un gran putiferio con questo Avatar, proponendolo come capolavoro della storia del cinema. Un film che avrebbe portato la “nuova” tecnologia del 3D ai massimi splendori, e ne avrebbe accorciato i tempi di sviluppo e diffusione su tutti i prodotti cinematografici (un pronostico questo che probabilmente è irrealizzabile visto che non si riesce a immaginare un film di Allen, di Almodovar, di Haneke, o di uno qualunque dei tanti registi italiani in 3D). Proprio per questo non gli si può perdonare di aver costruito solo l’ennesimo Blockbuster. Perché non serviva fare tutto quel casino per un prodotto del tutto simile a tanti altri: poco originale nella sua narrazione, incredibilmente costoso e tecnologico, e di puro intrattenimento. No non gli si può proprio perdonare.




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