Possiamo credere in un cambiamento. Sì, possiamo. È ciò che dice uno dei due candidati democratici alla presidenza degli Stati Uniti, al momento il favorito. Si tratta di Barack Hussein Obama, senatore afro-americano dell’Illinois. Afro-americano nel vero e proprio senso della parola, perché figlio di padre africano e madre americana e non solo perché nero (così vengono infatti definiti tutti i cittadini americani neri, qualunque sia la loro provenienza). Ad inizio si diceva che il problema di Obama era di essere troppo nero per i bianchi, e troppo bianco per i neri. Nel senso che il colore della sua pelle non bastava a rappresentare ciò che significa essere neri in America, visto che il giovane Barack non è certo uno spiantato dei ghetti di New York o Los Angeles, ma un avvocato laureato alla Columbia e a Harvard. Obama sta però riuscendo a vincere, raccogliendo i voti sia di bianchi che di neri, ma soprattutto dei giovani. E riesce a raccogliere i voti di chi prima non aveva mai votato e che si muove per la prima volta apposta per sostenerlo, perché il suo stesso linguaggio è nuovo. Perché alle accuse dell’avversario (per ora solo interno, la Clinton), non risponde con insulti. Perché in una nazione disunita parla a tutti, e non solo a coloro che possono portargli voti. Perché un senatore di quarantasei anni, unico senatore nero, in carica da soli tre anni è credibile che rappresenti un vero cambiamento. Ecco, se invece che il nome di un partito e uno slogan, avessimo importato in Italia la sostanza di questo cambiamento, forse i giovani voterebbero un po’ più volentieri.