MAX PAYNE, di John Moore
Scritto da Enrico Vannucci   
martedì 23 dicembre 2008
 Max Payne, di John Moore

Max Payne, di John Moore 

USA, 2008

Con Mark Wahlberg, Mila Kunis,  Beau Bridges, Olga Kurylenko, Chris O’Donnell

 

 

Voto:


Sceneggiatura: Beau Thorne tratta dal videogame omonimo scritto da Sam Lake.

BREVE SINOSSI:

Thriller poliziesco tratto dal famoso videogame omonimo. Max Payne, detective della omicidi, cerca è sulle tracce dei colpevoli del brutale assassinio di sua moglie e del loro bambino. Le indagini proveranno che dietro a quella che sembrava la semplice opera di balordi si nascondono altre ben più complicate motivazioni. Adatto a coloro che hanno giocato al videogioco e agli amanti del genere.

 

Può un videogame essere più avvincente di un film? Dopo aver visto questa ultima, in ordine di tempo, trasposizione per il grande schermo di un’opera in origine concepita per l’intrattenimento videoludico la risposta pare essere affermativa. I rapporti tra la settima arte e l’industria gamer sono più stretti di quel che si possa pensare: non solo per ciò che concerne il quasi naturale adattamento, in epoca digitale, dei giochi in film – si pensi alle note serie Tomb Raider o Resident Evil – ma anche per quanto riguarda il percorso inverso, dalle pellicole ai videogame, si è assistito a una copiosa produzione di titoli iniziata, tra l’altro, temporalmente molto prima, già alla fine degli anni Ottanta. 
Se ci fermiamo a riflettere sull’argomento notiamo come i videogiochi siano una delle forme di rappresentazione principale con la quale descrivere la dominante culturale postmoderna teorizzata da Jameson – sebbene l’autore, nel suo saggio pubblicato nel 1980, proprio agli albori della rivoluzione digitale di massa in ambito domestico, non li abbia potuti citare*. Ibridismo, frammentarietà, superficialità, euforia, omogeneizzazione dello spazio, presentificazione del tempo, ovvero i pilastri del postmoderno, si ritrovano tutti nell’arte videoludica, specialmente in quella di più recente produzione, da quando cioè i programmatori hanno cercato una sempre più spasmodica verosimiglianza con la realtà, sia sotto il punto di vista grafico sia sotto quello simulativo, sia come riproduzione dello spazio-tempo sia come riproduzione di stimoli sensoriali.
Che l’industria videoludica stia assumendo una sempre più importante rilevanza nell’ambito degli studi audiovisivi è comprovato anche da eventi come la programmazione di Fuori Orario: Cose (mai) viste in onda su Rai Tre dal lunedì al venerdì notte. Negli ultimi anni lo spazio televisivo ideato da Enrico Ghezzi ha, a più riprese, proposto due performance (non saprei come altro chiamarle) così intitolate: Clock Tower 3 di Kinji Fukasaku e Immagini quasi (dal/del/nel videogame Medal of honour da un’idea di John Milius). Nel primo caso ci troviamo di fronte al montaggio, della durata di settanta minuti, di tutte le scene animate contenute nel videogioco Clock Tower 3 prodotto da Capcom e curate da Kinji Fukasaku, mentre durante Immagini quasi lo spettatore è chiamato ad assistere a qualcosa di più “estremo”:  trentacinque minuti di un “muro” (volendo utilizzare un termine vintage) giocato da un ignoto player. Se non possiamo considerare i filmati di Clock Tower 3 una vera e propria esperienza videoludica in prima persona perché, in fin dei conti, ciò a cui assistiamo non si differenza dall’esperienza spettatoriale posta in essere dalle pellicole d’animazione nell’era post-Shrek – le quali non solo prendono spunto dalla tradizione dei cartoni animati a carta e matita che hanno visto in Walt Dinsey il pioniere ma che, inoltre, devono (più di) qualcosa anche a quella computer grafica videoludica, cresciuta del tutto autonomamente già negli anni Novanta del Novecento, che ha prodotto risultati di verosimiglianza più che soddisfacenti e che, appunto, film come Shrek, L’era glaciale, Gli incredibili, Final Fantasy, volendo citare quello che a tutt’oggi rimane il più pretenzioso di tutti, o l’ultimissimo Wall-e possono esserne considerati i fratelli maggiori e più evoluti – nel caso della messa in onda di una sessione di gioco del videogame ispirato a un’idea di John Milius assistiamo, invece, a un completo cambio di paradigma. I filmati di Clock Tower 3 sono stati ancora concepiti seguendo l’ideale settecentesco di un autore che, in base al proprio gusto, realizza un’opera a partire dal suo genio creativo che, eccitatosi, dona a lui la verve creativa**. Questa concezione batteuxiana dell’arte e di chi la produce si scontra contro il nuovo paradigma che la proiezione di Medal of honour trasmessa da Fuori Orario rende evidente. La nuova idea si basa sulla messa in discussione del concetto di autore dell’opera audiovisiva. La videoludica – sopratutto quella tridimensionale e in prima persona – permette di considerare non più come creatore solamente colui (o coloro) che sviluppa(no) il media ma dona lo stesso “titolo” al fruitore, allo user, in questo caso al player, al giocatore. Il paradigma audiovisivo, in maniera particolare quello cinematografico,  ha sempre affidato al regista un ruolo attivo, di agente, nel rapporto a due che il film imbastisce con il pubblico il quale, a sua volta, è stato sempre considerato in posizione subalterna e passiva. Il ribaltamento messo in atto dalla programmazione di Fuori Orario non solo istituzionalizza la fruizione di un videogame, elevandola al medesimo livello di un’opera audiovisiva, ma, soprattutto, proprio a causa di questa formalizzazione estetica, ribalta i rapporti secolari fra autore e fruitore, donando il titolo di creatore anche a colui che esperisce il media,  qualifica, quest’ultima, in precedenza dovuta soltanto agli ideatori, ai costruttori e assemblatori di tale media. All’osservatore – ma solo a colui che al contempo si predispone anche come il fruitore dell’opera e non al semplice pubblico – viene donato un ruolo attivo. In effetti non si può più parlare di un rapporto a due, di un binomio tra regista e spettatore ma si deve inserire una terza figura quella – è stato ripetuto fino adesso –  del fruitore che al contempo racchiude in sé – e le supera – le caratteristiche di entrambe. Con l’arrivo del DVD si è assistito a un altro tentativo di emancipazione dello spettatore dal potere assoluto del regista, esperimento poi abbandonato molto repentinamente. Una delle caratteristiche fin da subito più celebrate come una novità rivoluzionaria a esclusivo appannaggio del nuovo supporto ottico è stata quella dell’interattività – poi utilizzata soprattutto in ambito di film per adulti – che permetteva, tra le altre cose, di poter scegliere l’inquadratura preferita per visualizzare una scena. Nonostante questa possibilità di scelta però, la dipendenza dalla volontà di un autore esterno non veniva affatto intaccata. Lo spettatore da meramente passivo si faceva attivo ma non ancora fruitore/creatore perché la sua scelta poteva, sì, avvenire ma solo tra un numero limitato di punti di vista pre-decisi da un regista originario. Il videogame, invece, ribalta questa situazione, lasciando che sia lo user a determinare, attraverso le sue azioni, lo svolgersi delle immagini. Si potrebbe obiettare che anche i videogiochi per loro natura siano limitati, o meglio, siano delimitati da schemi, muri, mappe più o meno grandi ma finite. Vi è però una differenza da non sottovalutare: nell’audiovideo, nonostante vi possa essere una possibilità di scelta tra più punti di vista, le inquadrature sono rinchiuse in un quadro (lo schermo cinematografico o televisivo), nel videogame, invece, il concetto di quadro viene superato. Ovviamente non ci si riferisce a livello fisico, la sua presenza è e rimane imprescindibile, ontologica: il limite del campo visivo accumuna l’uomo al cinema e, prima ancora, alla fotografia e alla pittura. Il giocatore, muovendosi nello spazio-tempo del videogioco, crea un (possibile) infinito pianosequenza che la sua libertà, il suo libero arbitrio e, soprattutto, il suo controllo sui comandi di gioco, portano a ledere il concetto astratto di quadro, liberando il player da quel limite e superando, così, completamente il concetto di visione ottocentesca alla quale il cinema (e i suoi più antichi parenti) continuerà, per sempre, imprescindibilmente, a esservi condannato.
Dunque, che cosa c’è che non va in Max Payne? E’ presto detto: il suo più grande difetto risiede proprio nella sua discendenza videoludica. E non si tratta di un pedigree qualunque, bensì, del vincitore del premio come miglior videogioco dell’anno 2001. La pellicola, per quanto detto in precedenza, non potendo essere in grado di riproporre la medesima esperienza spettatoriale, può solo ricacciare il fruitore videoludico a mero spettatore cinematografico. Essendo, però, tutto ciò un limite insuperabile del media filmico, non si dovrebbe, nell’imprescindibile confronto tra le due opere, sottolineare marcatamente questo difetto che, in fin dei conti, si configura come una sorta di peccato originale non eliminabile. In effetti, John Moore ha anche tentato di nasconderlo: si pensi alle scene di lotta nelle quali il personaggio di Mark Wahlberg è invischiato. Un profano del videogioco non capisce come mai alcune sequenze siano state girate al rallentatore, simulando il famoso “effetto Matrix”, quello in cui i protagonisti si muovono alla velocità dei proiettili. Bene, in origine, ciò era dovuto a un’opzione di gioco chiamata Bullet Time che consentiva al player azioni più spettacolari al limite dell’impossibile. Moore, tentando di replicare questa caratteristica con la tecninca del rallenty, prova a forzare le regole ontologiche dello schermo, fornendo ai vecchi gamers l’illusione di essere nuovamente in controllo della vita di Max. Ovviamente si tratta di un’illusione (d’altra parte ci troviamo nel mondo dell’illusione per eccellenza: il cinema) che, però, se da un lato denota ancora di più i limiti ontologici dello schermo e della concezione dell’arte batteuxiana, dall’altro ha il pregio di configurarsi come tentativo, impossibile da realizzare, di superamento della stessa. Se, dunque, non pare giusto criticare più di tanto la pellicola per le sue “naturali” mancanze nei confronti dell’opera originale, si può certamente sottolineare come il lavoro di adattamento abbia provocato una perdita d’interesse nello svolgimento di una vicenda che in sé merita attenzione. Il problema forse più evidente è appunto quello diegetico, legato cioè alla trama. Lo sceneggiatore, Beau Thorne, costruisce la vicenda in modo troppo hollywoodiano. Non che il videogame scritto da Sam Lake non strizzi l’occhio proprio al cinema di genere americano, soprattutto a quello noir e alle pulp novels, ma proprio facendolo riesce a trovare una narrazione originale che permette di svelare l’intricato groviglio d’avvenimenti che rendono la vita del protagonista un vero e proprio inferno in maniera inaspettata e piena di colpi di scena. Il film viene altresì costruito scegliendo una narrazione consona all’anima più meramente blockbuster di Hollywood, strizzando l’occhio agli spettatori più assidui di questo genere di film (ma anche a coloro che non lo sono affatto), lasciando quasi fin da subito intuire (se non proprio comprendere) come il nodo focale si stringa attorno al triangolo moglie – amico traditore – multinazionale cattiva. Sinceramente tutto ciò è un peccato. Se la trama, che, va detto, non si discosta molto da quella originale, fosse stata letteralmente copiata da quella del videogame il film avrebbe forse avuto un esito migliore. Differenze che, però, seppur limitate, rendono la pellicola non particolarmente piacevole anche per lo spettatore meno cinefilo o per il fan del videogioco. Ecco dunque un caso in cui la vecchia (e buona) regola del tradimento necessario della trama di un opera per rendere avvincente quella del suo adattamento non funziona. Che la pellicola di Max Payne non sia riuscita è, lo ripeto, davvero un peccato. Peccato perché il cast non è malvagio – sicuramente non la migliore interpretazione di Wahlberg che, comunque, risulta abbastanza credibile nei panni del protagonista – peccato perché le idee visive del regista – come dimostrano le Valchirie alate, un’invenzione originale – si sono dimostrate interessanti e anche perché la scenografia, la fotografia e il montaggio concorrono a ricreare quell’effetto videogioco che purtroppo non basta a salvare un film che in molti aspettavano con ansia fin dalla schermata conclusiva del videogame.

*FREDRIC JAMESON, Il Post-moderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, Garzanti, 1989.

**CHARLES BATTEUX, Le Belle Arti ricondotte ad unico principio, Bologna, Il Mulino, 1983.



Commenti
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lofi  - infatti   |2008-12-24 00:12:29
Infatti il film è lofi, concordo sul voto...
Marci (l'omonimo)  - Bella recensione!     |2009-01-08 15:32:33
Complimenti vivissimi all'autore della recensione, la quale approfondisce (con
un linguaggio appropriato) temi complicati in maniera semplice, prendendo come
spunto la visione del film. Che io ho perso al cinema perchè sconsigliato da
tutti i miei amici e conoscenti.

PS. Max Payne è stato proprio un gran
videogioco!
CIAUZ
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