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Settantatre Stampa E-mail
Scritto da Diego Fontana   
mercoledì 31 agosto 2005

Un altro lento, lentissimo, sospirato numerino.

Sessantasette, sessantasette-e-un-po', sessantasette-e-ancora-un-altro-po', sessantasette-e-mezzo.

Aspettare. Non restava altro che aspettare. C'era chi faceva i compiti nel frattempo, o chi si mangiava un panino sbriciolando tra i tasti. Ma il senso era quello. Aspettare e sperare.

Sessant-quasi-otto, sessantotto, sessantotto-e-un-po'.


Era il tempo addormentato che scandiva quei pomeriggi infiniti. Il tempo dettato dal contatore di quel baracchino che faceva da registratore al Commodore 64. Il Commodore 64 era la Play Station della nostra infanzia. I giochi erano incisi su normalissime cassette, e per caricarli bisognava usare un registratore collegato alla tastiera. Sembra preistoria. Bisognava scrivere una specie di formula magica per far iniziare il caricamento. Il metodo accelerato consisteva nel premere due tasti contemporaneamente, ora non ricordo più quali.

Sessantotto-e-un-bel-pezzo, sessantotto-e-mezzo, sessantotto-e-tre-quarti.

Generalmente, entro i primi venti numeri si riceveva una specie di conferma. Sul monitor appariva una scritta: indicava che il gioco era stato trovato. Poi bisogna premere "Space bar" per proseguire.
Ben presto ci accorgemmo che, oltre alla barra spaziatrice, anche altri tasti permettevano di continuare il caricamento. Così iniziarono una serie di leggende su quale dei tasti scegliere. Si diceva ad esempio che il tasto CONTROL desse più garanzie, oppure che il tasto COMMODORE aumentasse leggermente la velocità.

Sessantanove, sessantanove-e-una-briciola, sessantanove-e-quasi-metà, sessantanove-e-mezzo.

La sensazione che ricordo con più chiarezza era quel senso di precarietà. I giochi dovevi sperare che si caricassero. Niente era scontato. Ti poteva capitare di aspettare anche più di mezz'ora e il gioco, inspiegabilmente, non funzionava. Non era così strano. Era normale così. Aspettare e sperare. Aspettare e sperare. Aspettare e sperare. Non c'era niente di strano, non era come adesso, che se un gioco è difettoso lo riporti indietro indignato e te lo cambiano. C'era qualcosa come di mistico. Non scherzo. Qualche specie d'insegnamento zen nascosto in qui pomeriggi a marchio Commodore. Senza precarietà, senza attesa, non ci può essere davvero piacere. Qualcosa del genere. Qualcosa così.

Sessantanove-e-tre-quarti, sessantanove-e-quasi-settanta, settanta-pieno, settanta-e-qualcosa.

Allora l'inglese dei videogiochi si pronunciava come si scriveva, e per noi il cosiddetto consumismo non era che un'incomprensibile parola lontana. Il concetto di usa e getta non si era ancora insinuato nei nostri piccoli crani di studenti delle elementari. Il tempo passava lento, lentissimo. Così lento che sembrava quasi immobile. Era un tempo che ti dava tempo. Ti lasciava lo spazio necessario per appassionarti davvero a qualcosa. E scorreva come un rito, ordinato da quei numeri come una preghiera, una messa. Non c'era caos. Non era un tempo puzzle da riempire o da incastrarci dentro pezzi. Era un ruscello a rallentatore che ti cullava il pomeriggio al suono stridulo che emetteva il registratore quando funzionava a dovere. Ti insegnava il senso della parola aspettare, del guadagnarsi qualcosa. Ti insegnava con leggerezza e senza prediche, cosa significa sperare. E ti insegnava anche che niente ti è dovuto. Che anche se hai aspettato a lungo, sperato tantissimo e sudato ancora di più per una cosa, l'universo non è obbligato a consegnartela tra le mani. E tu, bambino, sapevi benissimo questa lezione. La sapevi e l'accettavi. Non ne facevi un dramma. Era normale, anzi scontato che fosse così. Era la tua realtà.

Settanta-e-mezzo, settanta-e-tre-quarti, settanta-e-ormai-settantuno, settantuno-esatto.

Come sia andata, che ho dimenticato tutti questi insegnamenti, ancora non me lo so spiegare. Non riesco proprio a capirlo. Non saprei dire se sia avvenuto per gradi o tutto in una volta. Normalmente si dice che crescendo si cambia. In fondo, dev'essere un po' così davvero. Senza neanche che te ne renda più conto, il tempo comincia a scorrerti intorno all'impazzata. A scorrazzare, a sfrecciare, a superarti. Il tempo comincia a strangolarti, a non lasciarti più tempo. Cominci a pretendere. A esigere. Ad avere così poco tempo, da non aver più tempo neanche di aspettare. Il divertimento ti è dovuto. Immediatamente. Subito, adesso. È il tempo Play Station. È il tempo del non aver tempo. È il tempo usa e getta. Il tempo di dover fare in tempo. Il tempo di dover stare al passo col tempo. Il tempo che t'incastra, ti obbliga, ti condanna. La passione muore insieme alla speranza. Sì. Dev'essere questo che mi è successo. Senza dubbio. Nella mia vita non c'è più tempo per appassionarsi a niente. Ci sono solo buchi sull'agenda da riempire tra un appuntamento e l'altro.

Settantuno-e-mezzo, settantuno-quasi-settantadue, settantadue-meno-un-po', settantadue.

È strano, ma non me n'ero mica accorto prima. È solo ultimamente che me ne sono reso conto. La mia non si può propriamente chiamare vita. Più che vivere, direi che il mio è uno scorrere. Io scorro. Scorro tra le colazioni di lavoro, le riunioni, le pause pranzo. Scorro tra i "vediamo se mercoledì è libero" e i "facciamo la settimana prossima". Scorro a comprarmi qualcosa da mettere sotto i denti, alle nove e venticinque di lunedì sera, giusto cinque minuti esatti prima che l'Esselunga mi chiuda la serranda in faccia. Scorro i canali della televisione senza trovare mai niente. Scorro i cd sullo scaffale, e non ricordo quando è stata l'ultima volta che ne ho ascoltato uno per intero. Scorro le pagine di una rivista senza leggere mai un articolo fino in fondo. Scorro.
Scorro senza senso. Scorro da tutte le parti e non so più perché. Non so più neanche da quanto mi trascino avanti così, scorrendo senza nessuna passione. Scorrendo senza nessuna speranza.
E l'altra sera, insomma, mentre facevo al volo una partita alla Play Station, non so. È successo qualcosa. Mentre il sangue schizzava sullo schermo ho avuto come un'intuizione. Sì. Una specie di illuminazione. Ho guardato l'omino che moriva e per un attimo mi è come balenata l'idea che non fosse così sbagliato. Che in fondo, perché no. Voglio dire, tanto vale piantarla con tutto questo scorrere. Fermarsi. Ecco la cosa migliore da fare. L'unica cosa sensata rimasta. Così ho pensato mentre perdevo la mia vita virtuale. Fine. Chiuso. Stop.
Solo, ho voluto farlo a modo mio. Nel modo che mi sembrava più corretto. Non volevo una morte usa e getta. Non volevo che il tempo mi rubasse il tempo anche di morire. E così mi è venuta questa idea. Di morire lentamente, come vivevo lentamente quando ero bambino. Di dedicare il tempo giusto al gioco della mia morte. Volevo un suicidio a cui potermi appassionare, come mi appassionavano quei videogame. E così, eccomi qui. Sott'acqua da un bel po' di secondi ormai. Con un bel macigno legato alle caviglie. Non mi sono gettato da un ponte o quel tipo di cose. No, semplicemente mi sono legato un macigno sufficientemente pesante, e mi sono immerso nelle acque di questo lago. Non so. Per ora mi sento bene. Non mi sembra di provare paura. Ho sentito dire che quando non si è in tensione, e il cuore batte a un ritmo regolare, si consuma meno ossigeno.  Dev'essere per questo che la mia ora tarda tanto ad arrivare. Il mio orologio subacqueo continua a scandire secondi che non passano mai. Aspettare. Finalmente, ho di nuovo il tempo di aspettare e sperare.

Settantadue-un-quarto, settandadue-e-mezzo, settantadue-e-tre-quarti, settantatre.
 
 
BIOGRAFIA AUTORE 
Diego Fontana dice di sè: "Siete sprofondati in poltrona con gli occhi fissi al teleschermo, la musica si fa inquietante, la suspense è al culmine, l'assassino estrae il coltello… Pubblicità. Quante volte avete maledetto gli spot e tutti quelli che li inventano? Beh, adesso ne conoscete uno: Diego Fontana. Sono nato a Sassuolo nel 1979 ma vivo a Milano da qualche anno.
Per lavoro scrivo i testi degli spot. Per hobby, scrivo racconti. Solo una cosa volevo chiedervi.
Sono già di salute cagionevole e mi ammalo con niente: alla prossima interruzione pubblicitaria, per favore, andateci piano.
Ecco qualche racconto pubblicato:
"Sfumature e altri racconti", in Tèchne, rivista letteraria di Paolo Albani.
"E luce non fu", in Mind the Blog, rivista clandestina
"Cramad sa zomed", in Noluogo.it, rivista letteraria on-line.
"Settantatre", prossimamente in Noluogo.it, rivista letteraria on-line. "


 
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