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LA PRIMA COSA BELLA, di Paolo Virzì Stampa E-mail
Scritto da Chiara Fiorentini   
mercoledì 03 febbraio 2010
 LA PRIMA COSA BELLA, di Paolo Virzì La prima cosa bella, di Paolo Virzì

ITA 2009

Con Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi,Stefania Sandrelli, Micaela Ramazzotti e Dario Ballantini

 

Voto:

7,5

Sceneggiatura di Paolo Virzì, Francesco Bruni e Francesco Piccolo

SINOSSI: Quarant’anni di vita familiare “rievocati” sul letto di una madre che sta per morire. Problemi, drammi, risate, conflitti amorosi e generazionali. Riconciliazioni e prese di coscienza di una famiglia livornese, che vive a Livorno. Il tutto raccontato da un regista, ovviamente, livornese.

Ci voleva, decisamente ci voleva. Commedia, dramma, un po’ di nostalgia per gli anni settanta, una Livorno ben rappresentata e dei bravissimi attori. Direi che ci voleva proprio.
Le famiglie dei film non sono quasi mai tranquille. La maggior parte delle volte sono un covo di dissidi, discussioni, liti e difficoltà. E quella protagonista di questa pellicola non è da meno. Una madre (Micaela Ramazzotti/Stefania Sandrelli) troppo bella, moderna e ingenua per non creare problemi a se stessa e a chi le sta intorno. Un padre autoritario e geloso ma alla fin fine profondamente innamorato. Una zia rancorosa ferita in gioventù. E due figli che loro malgrado si ritrovano in mezzo a una separazione dolorosa e difficile: sballottati, “rapiti”, e fin troppo consapevoli della vita “moderna e ingenua” della madre. A dir la verità dei due figli quello consapevole di tutto ciò che succede è Bruno (interpretato da un bravissimo Valerio Mastrandrea capace di parlare in un ottimo e per niente forzato livornese). La sorellina (Claudia Pandolfi) si limita a soffrire dell’assenza, di volta in volta, di uno dei due genitori. Protetta da un fratello, apparentemente insofferente, che ogni volta la zittisce o la allontana dalla dura verità dandole simpaticamente dell’idiota. 
La pellicola si muove in un costante avanti e indietro nel tempo dalla contemporaneità agli anni settanta, agli anni ottanta fino nuovamente alla contemporanea malattia della madre. Infatti Anna Nigiotti in Michelucci è una malata terminale di cancro e le resta ben poco da vivere. Bruno viene costretto dalla sorella Valeria a tornare a Livorno per vedere la madre prima dell’inevitabile morte. Da questa visita, da questo spostamento tra Milano e Livorno, si sviluppa un road movie temporale e generazionale che attraverso una costante rievocazione del passato porta i due figli a una presa di coscienza e a una evoluzione interiore classica di ogni road movie che si rispetti. Bruno è infatti un uomo triste, un consumatore occasionale di marijuana, incapace di vedere aspetti positivi nella sua vita. E Valeria è una donna che si è sposata troppo presto con un uomo insopportabile perché, dopo la partenza del fratello, era l’unico che riusciva a darle sicurezza. Entrambi dovranno mettersi alla prova, trovare il coraggio, la forza e un nuovo modo di approcciarsi alla vita. 
La madre è un personaggio interessante e pieno di sfumature. Costruito sulle caratteristiche delle due attrici che la interpretano. In effetti Micaela Ramazzotti si ritrova a interpretare un ruolo non molto diverso a quello che già aveva ricoperto nel precedente film di Virzì, Tutta la vita davanti. Anna è una donna bellissima che ama la sua famiglia. Bella ma ingenua - non propriamente intelligente diciamo - ma molto passionale e proprio per questo giudicata e usata da tutti gli uomini della sua vita. Il marito furente e geloso la butta fuori di casa per una lite scaturita da futili motivi. Gli uomini del cinema la fanno amante, figurante e finiscono sempre per scacciarla e ferirla. Solo poco prima di morire decide di sposare l’unico uomo che le è sempre stato vicino e devoto nel corso degli anni, che l’ha capita e trattata come un gioiello nonostante tutte le avventure (pure e soprattutto sessuali) che hanno costellato la vita della donna. Donna però capace di esorcizzare ogni difficoltà (magari cantando assieme ai due bambini, tra le lacrime, la canzone che da titolo al film), incapace di smettere di lottare per i suoi figli che tanto ama.
E poi c’è Livorno, o meglio, c’è e non c’è Livorno. La città è li, la si vede più volte, ma non è mai mostrata a livello puramente estetico. Non ci sono inutili riprese del tessuto urbano e dei monumenti. Non ci sono dolly che mostrano squarci particolarmente impressionanti della città. Livorno c’è nei suoi personaggi. C’è a livello sonoro, vocale. C’è nel suo essere provincia provinciale. E non ci sarebbe stato modo migliore per raccontarla e rievocarla.
Insomma, Virzì è nuovamente riuscito a costruire un film interessante. Una commedia drammatica nostalgica che fa riflettere, sorridere e sorridere ricordando.

 



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