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C'è invasore e invasore Stampa E-mail
Scritto da Giuseppe Sofo   
venerdì 09 novembre 2007
C'è un capo di stato in esilio da anni. A lui, e al suo popolo, non è permesso vivere liberamente nella terra che è sempre stata loro, il Tibet, perché dal 1950 è stata annessa dalla Cina, grazie all'Esercito “di liberazione popolare” di Mao Zedong. A questo capo di stato, il Dalai Lama, l'amministrazione statunitense ha assegnato il mese scorso il più alto riconoscimento che è possibile assegnare ad un civile, già ricevuto prima da personaggi del calibro di Nelson Mandela e Martin Luther King. Una scelta forte, anche coraggiosa, incoraggiata soprattutto dalla spinta di Nancy Pelosi, italoamericana esponente del partito democratico e prima donna a capo della camera. Subito però il presidente Bush si è dovuto scusare per l'incontro con quest'uomo, ricevuto privatamente e “come guida spirituale, non come capo di stato”, perché l'invasore, o se preferite la Repubblica Popolare di Cina, ha lamentato una “ingerenza negli affari interni” del proprio stato. Con le stesse ragioni con le quali la Germania nazista avrebbe potuto dichiarare “affari interni” alla nazione germanica l'Anschluss dell'Austria. Con la differenza che il Führer non aveva progettato un'autostrada sulla cima delle Alpi, come capiterà invece per l'Everest.
Il governo italiano è in questi mesi molto impegnato a stare in prima fila tra coloro che chiedono alla Cina di bloccare la dittatura in Myanmar, la cui situazione è sotto i riflettori negli ultimi mesi. Pochi sanno però che i problemi di questo paese cominciano più di vent'anni fa, a seguito della manifestazione dell'8/8/88 che diede luogo alla dittatura odierna. Che in questi vent'anni i governi italiani non hanno fatto molto per risolvere la situazione. E che l'anno scorso, quando il Dalai Lama visitò l'Italia, Prodi si rifiutò di incontrarlo, per evitare problemi diplomatici con la Cina. Nonostante questo, sono sicuro che l'atteggiamento del nostro governo cambierà in futuro. Basterà solo aspettare che anche i monaci tibetani decidano di marciare per le strade del “loro” paese in diretta televisiva mondiale, magari fra vent'anni.


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