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Almodòvar e la divina Penélope Stampa E-mail
Scritto da Enrico Vannucci   
martedì 19 maggio 2009

Penélope Cruz, divina nell'ultimo film di Almodòvar
Penélope Cruz, divina nell'ultimo film di Almodòvar
DAL NOSTRO INVIATO A CANNES - Qualcuno credeva che Almodòvar avrebbe presentato una pellicola sciatta o insignificante sulla Croisette? E infatti non è così. Non ci troviamo di fronte forse a un capolavoro ma sicuramente Los abrazos rotos è un ottimo film. Soprattutto per come maneggia, anche lui dopo Bellocchio, la materia metacinematografica. La pellicola - che racconta, attraverso l’uso di  flash back e flash forward, la vita del personaggio principale, uno sceneggiatore di cinema ora cieco -  ci parla dell’accettazione di noi stessi, della comprensione del nostro essere che però non avviene in maniera immediata, naturale, ma solo attraverso un allontanamento da se stessi, attraverso un’obbligatoria trasformazione in qualcos’altro - non solo cambiando mestiere, da regista a sceneggiatore, ma  anche assumendo un’altra identità, proprio come  fa il protagonista - che ci permette, attraverso la distanza, di mettere a fuoco ciò che effettivamente noi siamo. C’è una scena nella pellicola che dichiaratamente racconta tutto ciò, quella nella quale Penélope Cruz e Lluìs Homar si fanno un autoscatto mentre entrambi stanno guardando, commuovendosi - lei in maniera particolare - la proiezione di Viaggio in Italia di Rossellini alla televisione. Si arriva alla conoscenza solo attraverso le immagini, solo attraverso la distanza che si crea tra ciò che è la realtà e ciò che è invece l’immagine in movimento. Si comprende la propria situazione solo attraverso ciò che il cinema ci racconta, perché esso ci porta a una distanza ontologica dal proprio referente ma, al contempo, a una immedesimazione con ciò che osserviamo. Il film ragiona tutto su questa ricostruzione dell’io attraverso l’immagine.

Altro esempio che non si può non vedere è il tentativo da parte del figlio della migliore amica del protagonista di ricostruire vecchie foto scattate dal regista/sceneggiatore e  che  quest’ultimo aveva distrutto. Si ricostruisce a ritroso, dunque, si rimettono i pezzi al suo posto proprio come in un puzzle. O come in un montaggio, come quello che il protagonista si decide di effettuare, nonostante sia cieco, dell’unica pellicola che non aveva mai finito nella sua vita perché fino ad allora, in realtà non sua. Una volta appropriatosi della propria esistenza, una volta conosciuto chi è lui realmente, solo allora quel film diverrà soltanto suo, nonostante la sua cecità che, come egli stesso afferma, non divenire più un handicap perché i film una volta iniziati devono essere portati a conclusione, proprio come le vite delle persone. Almeno per il rispetto non solo di noi stessi ma anche di chi ci ha amato e di chi si è amato. Che la pellicola poi sia incentrata sullo sguardo è fuori di dubbio fin dalla immagine, un close-up su un occhio, quello del protagonista, che però è cieco. Non riesce a vedere. L’handicap diventa metafora di una condizione esistenziale che solo in seguito ci verrà spiegata.

Almodòvar sforna dunque un altro grande film, condito, ovviamente, da una divina interpretazione di Penélope Cruz che potrebbe essere in lizza per la migliore interpretazione femminile, così come il film per la Palma d’Oro.

Pedro Almodòvar al lavoro
Pedro Almodòvar al lavoro

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