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DEFIANCE - I giorni del coraggio Stampa E-mail
Scritto da Enrico Vannucci   
domenica 08 febbraio 2009
 DEFIANCE, di Edward Zwick

Defiance - I giorni del coraggio (Defiance), di Edward Zwick

USA 2008

Con Daniel Craig, Liev Schreiber,  Jamie Bell, Alexa Davalos, Mia Wasikowska

 

 

Voto:

3

BREVE SINOSSI:
Tratto da una storia vera. Nel 1941 un gruppo di ebrei bielorussi guidati dai fratelli Bielski, scappando dai rastrellamenti nazisti, si rifugia nei boschi e fonda un gruppo partigiano per resistere contro il genicidio in atto. Film immorale per come l’argomento è stato trattato, se ne consiglia la visione, se interessati, in pay-tv o in maniera gratuita.  

Desta sicuramente grande curiosità il fatto che una recensione di un altro film, Kapò di Gillo Pontecorvo, scritta da un critico di cinema divenuto poi un noto regista, Jacques Rivette, e apparsa sulla rivista francese Cahiers du cinéma nel 1961 (n. 120, Giugno) si possa perfettamente usare, parole per parola, per descrivere Defiance – I giorni del coraggio di Edward Zwick. Il titolo dell’articolo originale è Dell’abiezione e, come è facile immaginare, il giudizio espresso è tutt’altro che positivo:

Il meno che si possa dire è che è difficile, quando si affronta un film con questo soggetto (i campi di concentramento), non porsi alcune domande preliminari. Invece sembra proprio che Pontecorvo, per incoerenza, stupidaggine o viltà, abbia decisamente trascurato di porsele.
Quella del realismo, ad esempio. Per molte ragioni, facilmente comprensibili, il realismo assoluto, o ciò che può farne le veci al cinema, qui è impossibile; ogni tentativo in questa direzione è necessariamente
incompiuto («dunque immorale»), ogni sforzo di ricostruzione o di trucco è derisorio e grottesco, ogni accostamento tradizionale allo «spettacolo» rientra nel voyeurismo e nella pornografia. Il regista è tenuto a diluire, affinché ciò che egli ha il coraggio di presentare come la «realtà» sia fisicamente sopportabile da parte dello spettatore, che in seguito potrà far altro che concludere, forse inconsciamente, che certo era una cosa penosa (che selvaggi, questi tedeschi!) ma tutto sommato non intollerabile, e che se uno era abile, con un po’ d’astuzia o di pazienza, alla fin fine poteva cavarsela. Nello stesso tempo ognuno di noi si abitua subdolamente all’orrore: a poco a poco esso entra a far parte dei costumi e del paesaggio mentale dell’uomo moderno. Chi potrà, la prossima volta, stupirsi o indignarsi di ciò che avrà cessato di essere sconvolgente? […] Da qualche mese ci rompono le scatole con i falsi problemi della forma e del contenuto, del realismo e del fantastico, della sceneggiatura e della «mise en scène», dell’attore lasciato libero o dominato e di altre frottole; diciamo allora che potrebbe darsi che tutti i soggetti nascano di diritto liberi e uguali; ciò che è importante è il tono, l’accento, la sfumatura, o come lo si voglia chiamare: cioè il punto di vista di un uomo, l’autore, questo male necessario, e l’atteggiamento che questo stesso uomo assume nei confronti di ciò che filma, e quindi nei confronti del mondo e di tutte le cose; atteggiamento che può esprimersi attraverso la scelta delle situazioni, la costruzione della vicenda, il dialogo, la recitazione degli attori, la pura e semplice tecnica, «indifferentemente ma altrettanto». Ci sono cose che non devono essere affrontate se non nella paura e nel tremore; la morte è una di queste, senza dubbio; e come, nel momento di filmare una cosa tanto misteriosa, non sentirsi un impostore? In ogni caso sarebbe meglio porsi la domanda, e includere questa domanda, in qualche modo, in ciò che si filma; ma il dubbio è proprio ciò di cui Pontecorvo e i suoi pari sono maggiormente sprovvisti.1

Questo è solo un (lungo) estratto dell’articolo di Rivette ma è sufficiente per comprendere la questione. La spiegazione delle parole dell’autore francese la lascio a Claudio Bisoni il quale ha analizzato ottimamente il pezzo in questione:

Non è che non si possa mettere in scena l’orrore. E’ che non si può farne un problema di individualità stilistica, di intenzione artistica esibita. Il cinema potrebbe registrare i corpi nello spazio dell’orrore, della nuda vita, ma non deve sovrapporre alla messa in scena lo sguardo di un uomo che si manifesta in uno stile. Il luogo dello stile coincide con il luogo del disprezzo critico. La “messa in scena”, almeno in questo caso, è all’opposto del formalismo.2

Come sottolineavo in precedenza se si sostituisse il titolo del film e il nome del regista, l’articolo di Rivette descriverebbe appieno lo stato delle cose della pellicola di Zwick. Sebbene non condivida appieno il commento su Kapò, giudicandolo migliore di quello che Rivette ritenga, trovo però sconcertante che quelle parole assumano un valore (quasi) dogmatico a quarantotto anni di distanza. Defiance è infatti un film immorale. La rappresentazione, diegetica prima ancora che la messa in scena, di una vicenda tratta da una storia vera è a dir poco allucinante e allucinatoria. Ciò che scorre davanti agli occhi dello spettatore per quasi due ore è uno spettacolo aberrante nel quale un tema così difficile come la seconda guerra mondiale, ancor di più se si tratta di ebrei che fuggono alle persecuzioni e al genocidio nazista, viene trattato secondo i canoni più bassi della logica hollywoodiana contemporanea. La storia porta con sé personaggi inquietanti, vuoti, animati, in molto maniera pessima, unicamente dallo stereotipo: il capo buono, il fratello geloso e ribelle, il fratellino coraggioso ma inesperto, i tedeschi e i collaborazionisti cattivi, i russi un po’ meno ma non di molto, gli intellettuali coraggiosi che si battono meglio dei corrotti uomini armati deputati nelle migliori intenzioni alla difesa dei deboli e, infine, le donne puttane quanto basta. Senza poi dimenticare i casi umani: gli anziani che, nonostante l’età, sono animati da un istinto di sopravvivenza ben superiore di quello dei nipoti, la donna stuprata dai soldati tedeschi che, nonostante il divieto di mettere al mondo i figli vigente nel campo, tiene nascosta la gravidanza fino all’inevitabile nascita e via dicendo. Non sono qui a negare il fatto che queste cose siano realmente accadute e che i protagonisti di questa disumana vicenda abbiano vissuto per anni in condizioni terribili – soli, nei boschi, con poco o nulla per sostentarsi – anzi, proprio per il fatto che si tratta di accadimenti reali è immorale trattarli nel modo scelto da Zwick. Non dobbiamo nemmeno andare troppo indietro nel tempo per ricordarci di memorabili pellicole quali Il pianista di Polanski o Schindler’s List di Spielberg che hanno il pregio di raccontare vicende terribili, realmente accadute, senza però cadere nel pornografico come invece accade in Defiance. Pornografico non nell’accezione oggi comune del termine ma secondo quella che Rivette utilizza nel suo articolo, ovvero ogni forma di <<accostamento tradizionale allo «spettacolo»>>3  di una storia il cui soggetto ha un’importanza non solo storica ma memoriale. Diviene immorale dunque ricondurre una vicenda umana di una portata tragica incommensurabile a una serie di stereotipi di genere cinematografico di bassa lega. Ridurre, infatti, questi accadimenti a un film di guerra – in alcune scene ci si chiede se tocca aspettarsi che da dietro un albero prima o poi faccia la sua comparsa un redivivo John Rambo armato e con il coltello tra i denti – che incorpora con sé elementi da  melodramma sentimentale – la scena del “post-prima notte d’amore” tra il protagonista Tuvia e la sua amata, sebbene fino ad allora mai sfiorata, Lilka non solo è brutta ma è pure stucchevole per la sua evidente falsità ed esposizione formale, da renderne la visione fastidiosa – rende il film non solo una produzione hollywoodiana ignobile e pretestuosa come non se ne vedevano da anni ma lo qualifica, appunto, come un’opera immorale.
Come ha scritto Serge Daney, <<nel suo articolo, Rivette non racconta il film, si limitava a descrivere un’inquadratura, con una frase. La frase, che si scolpì nella mia memoria, diceva: «Guardate, in Kapò, l’inquadratura in cui Emmanuelle Riva si suicida, gettandosi sul filo spinato ad alta tensione: l’uomo che decide, a questo punto, di fare un carrello in avanti per inquadrare il cadavere dal basso verso l’alto, avendo cura di porre la mano alzata esattamente in un angolo dell’inquadratura, ebbene quest’uomo merita solo il più profondo disprezzo». Così un semplice movimento della macchina da presa poteva essere proprio il movimento da evitare. Quello che -  in modo quanto mai evidente – bisognava essere abietti per compiere. Appena terminai di leggere questa righe seppi che il loro autore aveva assolutamente ragione>>4. Nell’articolo di Rivette, la  questione è, dunque, la mise en scène. <<Se si accetta la nozione di “messa in scena”, i problemi di contenutismo (inteso in senso tradizionale) slittano in secondo piano. […] Si può non avere nulla da dire e saperlo fare meglio di altri. Il massimo disprezzo va proprio a coloro i quali vogliono esprimere un soggetto interessante attraverso uno stile più o meno artistico>>5. E questo non è solo il problema, secondo l’autore francese, di Pontecorvo in Kapò, ma, a mio parere, anche quello di Zwick in Defiance. Vediamo infatti come si sviluppa la “messa in scena” di quest’ultima pellicola. Il manierismo di genere regna sovrano. Non solo nella già citata scena post-coitale o in quelle di combattimento degne dei miglior (peggior?) film d’azione prodotti negli anni di Reagan ma tutte le sequenze del film sono caratterizzate da un in più di natura sia verbale – alcune battute sono realmente raccapriccianti – sia visiva – Tuvia in sella a un cavallo bianco come un Braveheart novecentesco – che lo rendono insopportabile per le orecchie e, soprattutto, gli occhi. Così come la scelta degli attori si rivela realmente pessima. Chi ha avuto il coraggio di scegliere Daniel Craig – a mio parere perfettamente a suo agio nei panni dell’agente 007 ma dotato di due, dico due, espressioni facciali – come protagonista merita quel <<più profondo disprezzo>>6  invocato da Rivette. Peccato che un ottimo attore, nonché interessantissimo regista, come Liev Schreiber – nei panni del fratello ribelle Zus – si sia ritrovato in un’opera che tutti coloro dotati quanto basta di buon gusto (o almeno di umanità) dovrebbero tacciare, come minimo, di presunzione se non, appunto, d’immoralità. Anche il resto del cast non appare azzeccato. Jamie Bell, l’ex bambino prodigio di Billy Elliot, non rende giustizia alle sue qualità di attore, non perché non si trovi a suo agio all’interno di un film, ahinoi, di guerra – basta confrontare la sua performance in Flags of our fathers di Clint Eastwood per dimostrare, appunto, l’opposto – quanto, piuttosto, viene da presupporre un’incapacità di riflessione sulla materia da parte del regista Zwick, incapace di dare le giuste indicazioni necessarie. E lo dimostrano non solo movimenti di macchina e prestazioni recitative, quanto fotografia patinata, acconciature e make-up troppo perfetti per essere verosimili, scenografie, soprattutto quelle del ghetto, evidentemente finte e musiche, nonostante le nomination ai Golden Globes e agli Oscar, troppo invadenti che fanno pensare a un prodotto più televisivo che cinematografico, certamente di altissimo budget (ma quale film in America non ha un alto costo?), ma pure sempre realizzato con in mente un mercato ben preciso, quello del piccolo schermo. L’immoralità della messa in scena è palese sin dalla prima inquadratura quando, in seguito a un’immagine d’archivio di Hitler che saluta con il braccio alzato, assistiamo a delle scene di deportazione degli ebrei bielorussi ricostruite, spacciandole, attraverso effetti ottici per documenti d’epoca. L’immoralità, sebbene potrebbe risiede anche nella scelta di ricreare falsi filmati da cinegiornale, si trova tutta nel manierismo e nel formalismo coi quali tali immagini sono state concepite. Qualcosa di aberrante, che ci fa, quasi, ma ancora non del tutto, invocare l’iconoclastia nei confronti di certi argomenti. Quasi, appunto. Per fortuna. Per fortuna perché si è consci che la memoria di ciò che è successo non è perpetrata in maniera irresponsabile solamente da questi simulacri immorali ma che esistono immagini malgrado tutto che hanno la potenza di non farci dimenticare quanto di terribile è accaduto.7


1La traduzione italiane dell’articolo di Rivette è disponibile in CLAUDIO BISONI, La critica cinematografica. Metodo, storia e scrittura, Bologna, Archetipolibri, 2006.
2CLAUDIO BISONI, op. cit.
3JACQUES RIVETTE, Dell’abiezione, in CLAUDIO BISONI, op. cit.
4SERGE DANEY, Lo sguardo ostinato. Riflessioni di un cinefilo, Milano, Editrice Il Castoro, 1995.
5CLAUDIO BISONI, op. cit.
6JACQUES RIVETTE, op. cit.
7Per un approfondimento sulla nozione di immagini malgrado tutto e su quali documenti dell’olocausto siano rappresentabili o meno si legga GEORGE DIDI-HUBERMAN, Immagini malgrado tutto, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2005.


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