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LA DUCHESSA, di Saul Dibb Stampa E-mail
Scritto da Enrico Vannucci   
martedì 13 gennaio 2009
 LA DUCHESSA, di Saul Dibb

La duchessa (The Duchess), di Saul Dibb

Gran Bretagna, Francia, Italia 2008

Con Keira Knightley, Ralph Fiennes,  Charlotte Rampling, Dominic Cooper, Simon McBurney

 

 

Voto:

7

BREVE SINOSSI:

Melodramma in costume sulla vita di Georgiana Spencer, ava della Principessa Diana, incentrato, in particolare, sul racconto del suo matrimonio infelice e della sua travagliata e osteggiata storia d’amore con un giovane politico che diverrà, poi, in seguito, il primo ministro di Sua Maestà. Film adatto non solo al pubblico femminile e a coloro che amano le pellicole in costume, ma piacevole anche per i meno appassionati del genere.

 

 <<Stento a comprendere quanto noi siamo impegnati con il concetto di libertà>> <<Libertà, con moderazione>> <<Il concetto di libertà è un assoluto>>. In queste tre battute tra la Duchessa di Devonshire e Sir Peter Teazle, leader dei Whigs, partito politico “di sinistra” nel settecento britannico, si concentra il punto focale attorno al quale tutto il film orbita.
La pellicola è stata – giustamente – venduta al pubblico come una grande epopea romantica in costume, tratta dalla vera storia personale di Georgiana, nobildonna inglese e ava di quella Diana Spencer alla quale, a scopo pubblicitario, la sua figura è stata affiancata, non solo per ragioni di parentela quanto, ancor di più, a causa delle rispettive vicissitudini sentimentali che, a detta di molti, avrebbero notevoli somiglianze*. Qui non vogliamo appurare se, effettivamente, le due vicende umane abbiano più o meno aspetti in comune perché non è il nostro lavoro e, al contempo, non desideriamo soffermarci su un aspetto che nel film è, sì, importante a livello di trama – la storia d’amore, sebbene sarebbe più giusto affermare il sentimento dell’amore o la concezione dell’amore – ma, al contempo, risulta essere superficiale se vogliamo analizzare ciò di cui la pellicola in realtà ci parla, ovvero una riflessione sul concetto di libertà che le tre battute riportate in testa all’articolo sintetizzano così bene.
Il lungometraggio, come tutti d’altronde, o quasi, si sviluppa su più strati, alcuni superficiali e ben visibili dal pubblico anche più distratto, altri più interni, nascosti, vicini al “cuore” dell’opera e, di solito, meno direttamente comprensibili ma, proprio per questo, di maggiore importanza, contenenti il senso di ciò che vediamo. La Duchessa sfrutta una complessa storia d’amore, ben dipinta dal regista Saul Dibb, per riflettere sul concetto di libertà, rimandandoci, così, idealmente, a quei pamphlet filosofici settecenteschi nei quali si cercava di catalogare tutto lo scibile umano, definendo, razionalmente, gli aspetti importanti della vita umana. Per svolgere il compito prefissatosi, Dibb instaura cinque diverse tipi di relazioni: la prima, un matrimonio di rango, fin da subito infelice, tra due importanti casati, tra Georgiana Spencer e il Duca di Devonshire, stretto a tavolino grazie alle trame dalla madre di lei, con l’unico scopo di generare un erede maschio; il secondo, un matrimonio fallito tra una nobildonna, Bess Foster, e suo marito, un signorotto un po’ rozzo che ha abbandonato il talamo nuziale per vivere con la propria amante; il terzo, un forte rapporto di amicizia tra Georgiana e Bess, rovinato dal quarto rapporto, di tipo amoroso, che si instaura proprio tra la Foster e il Duca il quale non solo la eleva ad amante ufficiale ma anche la ospita in casa propria con lui e la moglie e, infine, un amore di tipo passionale e forte tra Georgiana e Charles Grey giovane e idealista politico Whig.
Se catalogassimo i personaggi principali secondo una scala che analizzi i loro atteggiamenti nell’ambito delle loro relazioni interpersonali nelle quali sono coinvolti, si potrebbe suddividerli come segue: il Duca di Devonshire e la madre di Georgiana si avvarrebbero sicuramente dei titoli di reazionari e conservatori, i nobili della vecchia e secolare aristocrazia opposti alla Duchessa e al suo amante i quali parrebbero progressisti e anticonformisti, con Bess Foster a stagliarsi a metà tra le due coppie. Ma un’analisi di questo genere sarebbe sbagliata perché partirebbe dalla superficie – i rapporti amorosi – e non dalla domanda principale se “la libertà sia un concetto assoluto o meno”.  Se questa è la vera questione che la pellicola mette in gioco, allora i personaggi assumono delle caratteristiche assai diverse. Georgiana  diviene l’ ”estremista” di tutta la vicenda. La sua risposta non lascia adito a dubbi: il concetto di libertà è un assoluto e non concede spazio a trattative o a ripensamenti. La sua vita e gli atteggiamenti che tiene lo dimostrano. La nobildonna si comporta come se le regole non esistessero senza comprendere però che anche per una del suo rango le regole esistono. Sicuramente un’appartenente dell’aristocrazia rimaneva sempre più libero rispetto alla common people ma, in ogni caso, era soggetto a regole, non solo di stampo feudale, d’obbedienza a un vassallo superiore e al sovrano, ma anche di comportamento, soprattutto di etichetta, nell’alta società. La Duchessa, piangendo, chiede al proprio marito e alla propria madre perché non possa avere anche lei un’amante come tutti quelli del loro rango possiedono in quel sistema di relazioni sociali, perché non possa essere libera di sceglierselo e tenerselo. La risposta non fa altro che ribadire, in altro modo, le parole di Sir Peter Teazle riportate all’inizio: non è possibile amare così, come la donna vorrebbe, alla luce del sole, senza discrezione, non è possibile dunque comportarsi liberamente senza rispettare le regole non scritte di una società, non è possibile dunque vivere altra libertà che non sia quella con moderazione alla quale il navigato politico Whig faceva riferimento. Da questo punto di vista, dunque, la madre di Georgiana e il Duca di Devonshire non sono quindi dei reazionari, sebbene alcune battute d’impeto di entrambi ce li possano fare sembrare, ma, piuttosto, dei conformisti. Tutti i personaggi possono essere misurati secondo questa scala, se più o meno conformi ai principi e alle regole della società di cui fanno parte. Se il Duca, la madre, Bess, Teazle sono fin da subito, chi più chi meno, conformisti, nel finale sia Grey sia Georgiana ultimano il loro percorso di avvicinamento verso quel modo di comportamento, il primo venendo ricompensato con il suo sogno di diventare Primo Ministro, la seconda accettando, ma senza rimpianti, che il suo sogno di libertà assoluta non è, ora, possibile.
La Duchessa è un film conformista. Molto più conformista delle sue pellicole sorelle che sono apparse sugli schermi in questi ultimi anni. Mi sto ovviamente riferendo a Elizabeth di Shekhar Kapur, The Queen di Stephen Frears e Marie Antoinette di Sofia Coppola.  Solo il primo titolo è, in ultimo, con il suo finale, con quella celestiale apparizione di Elisabetta agghindata a regina vergine, un inno, poco convinto, controvoglia e sofferto, alla conformità a uno status sociale. Gli altri titoli mostrano due donne diverse: il primo ci svela un’Elisabetta II sull’orlo della crisi, di consensi, certo, ma, soprattutto, di nervi, che deve abbandonare il suo storico ed eccessivo conformismo per farsi più umana (proprio l’esatto contrario della sua omonima antenata, costretta a farsi celestiale/divina per essere rispettata) e scendere proprio in mezzo alla folla, farsi parte di quel popolo che depone fiori per Diana davanti a Buckinghan Palace, gente che, in fin dei conti, rimane un “suo” possedimento essendone il sovrano ma al livello della quale deve, per forza, scendere; il secondo invece ci rivela le inquietudini adolescenziali di una giovane donna che vorrebbe fare tutto tranne che assumere il titolo e gli oneri di Regina di Francia e la cui libertà la porterà al patibolo. La Duchessa, invece, eleva il conformismo a vero e proprio stile di vita e, per questo, non appare sicuramente un film progressista ma tantomeno, però, lo si potrebbe definire, dall’altro lato, conservatore. Devonshire è il maggiore finanziatore del partito Whig, il libertinaggio è all’ordine del giorno e viene visto come qualcosa a cui aderire per soddisfare i propri desideri amorosi. Sarà solo con la rivoluzione Romantica ottocentesca che l’ideale dell’amore vero (ed unico) prenderà il sopravvento. Proprio per questo Georgiana appare dunque un personaggio controtempo, in anticipo. Il carattere interpretato dalla Knightley è una vera eroina romantica, come se fosse tratto da un libro delle Sorelle Brontë o della Austen ma catapultato in un periodo storico che purtroppo non è quello giusto. Se, volendo fare un paragone, la Coppola in Marie Antoinette mettendo in scena una corte di Versailles e un universo nobiliare che stanno decadendo velocemente e violentemente permette alla sua giovane protagonista una vita come quella sognata dalla Duchessa di Devonshire, in cui la libertà è veramente un assoluto – anche in senso creativo per la regista, mettendo in scena un mondo glam-pop che richiama una certa controcultura degli anni Ottanta del Novecento e la New Wave, non solo musicalmente – Dibb, dall’altro lato, non può consolare la propria eroina con la melodia delle canzoni pop che si mescolano postmodernamente agli sfarzosi lustrini degli abiti e al trucco brillantinato della regina di Francia coppoliana. Nonostante anche la Knightley sia, al pari della Dunst, oltre che una bella donna, un’indossatrice di abiti opulenti e ricercati, pronti a lanciare mode in tutto il regno e oggetto del chiacchiericcio di corte e delle penne dei vignettisti, i costumi della donna inglese sono e rimangano meno eccesivi, meno ricercati, ovviamente moderati. Non siamo in Francia, non ci troviamo nella terra della Rivoluzione, ma in Inghilterra, dove la novità – come, ad esempio, il concetto di libertà che nel Settecento, divenendo lentamente universale, non solo per i nobili ma anche per il popolo, si rinnova – non è presa di petto, secondo i movimenti dell’animo, facendosi guidare dalle passioni come oltremanica, ma con moderazione, secondo le parole del vecchio politico inglese. La società nobiliare britannica non è in crisi, non lo sarà ancora per circa poco più di un secolo, agli albori del ‘900 quando la camera dei Comuni spoglierà totalmente quella dei Lord del potere ancora detenuto e il suffragio si estenderà sempre più a massa d’olio, rendendo vetusta una classe sociale ormai stantia, come magistralmente raccontato da Altman in Godsford Park, superata dalla propria stessa servitù e dai cugini yankee d’oltreoceano.
La Duchessa è dunque un buon film, realizzato con molto tatto, quasi, a voler ricalcare proprio quella libertà con moderazione di cui il film si fa alfiere. Dalle interpretazioni alla regia, dalle scenografie ai costumi, tutto è ben bilanciato. Così lontanamente distante dagli eccessi della Versailles coppoliana – sebbene Dibb non si lasci sfuggire scene di sesso, anche lesbico, sebbene molto caste e dove si lascia ampio spazio all’immaginazione, che in Marie Antoinette, nonostante “il tutto portato all’estremo”, sono assenti – La Duchessa può piacere, proprio per questa sua capacità di lavorare su più registri e più piani, a un pubblico molto variegato e non solo a quello femminile, parte preponderante verso il quale, nelle intenzioni dei suoi distributori, è certamente rivolto.
 
 
*A conferma di ciò si veda – è disponibile anche su You Tube – come uno dei trailer del film in inglese utilizzi proprio l’immagine dell’ex principessa di Galles defunta.



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