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La curvatura della pioggia Stampa E-mail
Scritto da Daniele Dieci   
lunedì 09 maggio 2005

Macchina. Strada di campagna. Tramonto. Un raggio di sole assonnato mi illumina il viso. Sguardo fisso verso l’orizzonte. La macchina si ferma, motore spento. Scende un uomo, sulla trentina, occhiali da sole, giacca lunga, nera. Tre passi, apre il cofano con un colpo secco (la finestra mi riflette della luce negli occhi), lo richiude, sale in macchina, cintura, parte. Sulla strada dove la vettura si era fermata, rimane un corpo senza vita, le mani congiunte. Resto immobile, respiro a fatica.
La mattina seguente leggo sui giornali che il cadavere trovato lungo via Staffette Partigiane, la strada di fronte casa mia, non è ancora stato identificato. Probabilmente, continua l’articolo, l’omicidio si è consumato da un’altra parte e il corpo sarebbe stato trasportato successivamente fino al luogo del ritrovamento; non si sa niente né sul colpevole né tanto meno sul movente.
A questo punto chiunque al mio posto si sarebbe diretto al commissariato e avrebbe raccontato quello di cui era stato forse l’unico testimone: chiunque, ma non io. Io non potevo. Dovevo aspettare; non so cosa, non so dove, non so perché, ma era l’unica cosa che mi sentivo di fare. Una sensazione, solamente una sensazione.
Tic tic tic tic tic gocce tic tic tic non bisogna piangere non ora guardo piovere. Mi sorride, mi sta sorridendo! Mi fissa ora sento chiudere il cofano un piede mi pesta mi stritola mi schiaccia ancora più forte sempre più forte aumenta aaahhhhhhhhhh!!!!! Soffro
come un cane per niente e il sole cosa fa? Sogghigna la vita davanti tutta ora fermati ma
non riesco ad afferrarla e passa indifferente indifferente passa putrida carcassa sei solo
quello no nient’altro annusati l’odore lo senti? Penetra ovunque è in testa scende il cuore trema la puzza di morto.
Mi sveglio, sto sudando.
Ho ancora sulle ginocchia il giornale di stamattina. Guardo l’orologio a muro sopra l’ingresso, le due e venti. Mi alzo dalla poltrona, ho tutto il corpo indolenzito, sono stanco. Vado in bagno, sento l’acqua fresca sul mio viso, ho un breve sorriso di piacere. Per le tre sono sotto casa di Giorgio, abita a pochi passi da casa mia. Lo aspetto scendere. Passeggiamo tutto il pomeriggio lungo le strade di campagna della sua proprietà, ovunque c’è vita. Mi sento spaesato, come incollato su questo paesaggio, che non mi appartiene.
- Come procedono i tuoi studi?
- Sono arrivato a un punto morto, o meglio ci sono voluto arrivare.
- Cosa vuoi dire?
- Vedi, Giorgio, ho paura di quello che sto scrivendo.
- Prova a dire, dai, qui non ci sente nessuno. Siamo solo io e te.
- Passato e futuro non esistono. Da quando siamo stati creati esiste solo il presente, e
nient’altro.
- E perché questo ti dovrebbe far paura?
- Esistendo solo il presente, l’onniscienza e l’onnipotenza divina agirebbero solo nel presente: crollerebbe il destino, e Dio si renderebbe conto di aver sbagliato.
- Sbagliato? Cosa stai dicendo?
- Dico che il progetto divino sarebbe fallito. Dio non era in grado di conoscere il futuro, non per un suo limite, ma semplicemente perché il presente esiste da quando esiste Lui, ed esiste solo Lui. Per questo non aveva previsto che il mondo avrebbe poi intrapreso la strada del male e dell’odio, rifiutandoLo.
- Ma il cristianesimo si basa sull’esistenza di un progetto divino di cui ogni singolo individuo fa parte.
- Lo so, e questo mi spaventa. Ma prova a pensare: perché allora scendere sulla terra, farsi uomo, e cancellare con una croce i peccati dei suoi figli? Perché sentire il bisogno di ridisegnare per l’uomo la retta via da seguire fino ad arrivare alla salvezza? C’è davvero la salvezza alla fine di questa via? Gesù Cristo ha promesso che ci sarà, ma se ora neanche Dio lo può sapere per certo, come facciamo, noi, a esserne così sicuri?
Silenzio.
Inizia a piovere. Ci ripariamo sotto una quercia poco distante, fa freddo. Mi appoggio al tronco. La pioggia mi guarda, guardo la mia vita nella pioggia.
Giorgio se ne sta pensieroso, seduto sull’erba umida, un metro davanti a me.
Lo conosco ormai da vent’anni, so com’è fatto. In questo momento starà rimuginando sul nostro discorso per cercare di sviscerare ogni virgola, pronto a far vibrare il suo sarcasmo, individuare il minimo spiraglio e portare il colpo, ferendo a morte il mio ragionamento.
E invece, questa volta rimane immobile, come stordito. Si gira di scatto, cerca il mio sguardo. Alzo gli occhi, è lì davanti, mi fissa. Piange. E’ una reazione che non avevo calcolato. Credo sia preoccupato per me; capisce la mia sofferenza, e ne partecipa. Tra i rami ancora commossi irrompe un raggio di sole, prepotente. Si fa spazio tra la nebbia di nuvole, leggero mi solletica il volto. Decidiamo di tornare verso casa, si è fatto tardi.
Nei giorni seguenti non esco quasi più di casa, lavoro giorno e notte. Venerdì il libro è finito, pronto per essere stampato. In queste pagine ho riversato tutti i miei pensieri, le mie angosce, i miei dubbi. Ho paura a pubblicarlo, ma sento che lo devo fare. Telefono alla casa editrice e comunico di aver finito il mio lavoro, mi viene risposto che le stampe inizieranno la settimana prossima.
Le indagini intanto proseguono. L’identità dell’uomo assassinato è ancora ignota. Unico indizio per la polizia è un foglietto trovato nel taschino destro della giacca indossata dal defunto. L’indomani i giornali riescono a pubblicare il contenuto del foglietto, è una poesia. Incuriosito dalla notizia esco a prendere il giornale. Rientro poco dopo, appoggio le chiavi sul tavolo, mi siedo, apro il giornale, pagina 3.

Piove.
Lungo il vetro una goccia
scivola, segue sinuosa
le curve del tempo.
Dietro di lei,
ombre di ricordi
si rincorrono, si mescolano
e svaniscono.
Davanti a lei,
proiezioni di figure tremolanti
fremono impaurite
e sprofondano
in abissi infiniti,
putride carcasse
della loro ricerca.

Non è possibile. Non è possibile! Calmo, stai calmo. Corro in camera, sto tremando, mi manca il fiato, la testa mi batte. Sento il sangue pulsarmi nel cervello, rimbomba. Apro la porta, non mi ricordo dove l’ho messo, forse sul comodino. No non c’è. Guardo nel cassetto della scrivania, non lo trovo. Mi fermo, chiudo gli occhi. Sto ansimando. Dov’era l’ultima volta che l’ho visto? Ma certo! Apro l’armadio, sotto i maglioni, eccolo. Il mio diario. Lo sfoglio, cade un foglietto. Lo raccolgo. E’ quello che stavo cercando. Sul foglietto una
poesia, la stessa poesia.
Torno in salotto, con in mano il foglietto. Suonano alla porta. Mi infilo la poesia nel taschino destro della mia giacca, e lì capisco tutto. Vado alla porta, un uomo sulla trentina, occhiali, giacca lunga, nera mi aspetta. Immaginavo fosse lui. Mi guarda e sorride. Sta per dirmi qualcosa, lo anticipo.
- Eccomi.
Mi dispiace, dobbiamo andare. Loro non sono ancora pronti.

 

BIOGRAFIA AUTORE
Daniele Dieci è nato nel 1985 a Sassuolo (MO), dove vive e ha frequentato il Liceo Scientifico A.F. Formiggini.



 
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