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Controluce Stampa E-mail
Scritto da Jean M. Janssen   
mercoledì 02 novembre 2005

<< E’questa casa enorme? >> esclamò lei indicandola.
<< Ti piace? >>
<< E’stupenda, ma non capisco come fai a viverci da solo >>
<<La tengo sempre piena di gente interessante, notte e giorno. Gente che fa cose interessanti. Gente celebre >>.

Il suono del libro chiuso di scatto è polveroso secco e porta attraverso l’aria, tiepida tutto sommato, l’odore di pagine rimaste a lungo sigillate. Troppo a lungo? Il grande Gatsby di Fitzgerald, raccolto con dita pulite e per questo caute dagli scaffali della Bancarella. Titolo che sorridente sussurra alle orecchie musica jazz e flanella bianca.
E’grande la mia casa. Osservo come gli oggetti sciolti si dispongano e la quiete e l’infinita lentezza delle pietre colmino la Piazza. Oltre ed attraverso la sagoma lucida della bicicletta che sembra rapida e sospesa. Ma solamente per contrasto.
La mattinata ha suggerito traiettorie casuali per i viali del centro ed il loro ruvido mescolarsi d’asfalto. La giusta pienezza di questo Ottobre lascia poco spazio al sole. Ma non c’è freddo e neppure dolore. Solo sottile mancanza.
Osservo come un folto frenetico intreccio di tubi metallici sembri sostenere la massa parlante e gonfia del Duomo. Lavori in corso, forse anche questa è Architettura ma certamente è Vita. Nessuna gigantografia cerca di nasconderli, luminosa di chissà quale Aprile. Persone attraversano. Non sembrano interessate."Pace", disegno inviatoci dallo stesso autore del racconto

Scivolo, indisturbato purtroppo, attraverso il succedersi dei minuti e mostra già il dorso il pomeriggio. Accompagno i miei passi e ne seguo il suono mentre rotola sul selciato e poi, solamente qualche sguardo più avanti, sull’erba timorosa e la luce ripida e antica del miracolo di Piazzale della Pace. Cronaca parmigiana e vita che malgrado se stessa esce e si mostra, senza temere.
E tuttavia silenzio. La stessa aria tiepida si dipinge di giallo e di verde e sorride stanca all’accenno incerto di un soffio di vento. Le voci ondeggiano e si perdono non lasciando traccia né significato, a malapena si permettono di increspare l’immagine del Palazzo riflessa nell’acqua e sulle pareti dei templi si spengono, forse, beate loro, già soddisfatte. Semplicità apparente ed irrispettosa.
Ricordo a tratti improvvisi lo sguardo non distrarsi dalla sicurezza dei miei gesti eppure, nel controluce opaco della finestra, giocare con i tuoi colori d’Autunno e di pioggia, e studiare il respiro del tuo cotone. Non devo abbandonare, nemmeno per un istante, il mio danzare perfetto tra liquide sciarpe di seta, tratti di matita e parola sicura e gradevole. Ecco l’antidoto. Ora servirebbe un veleno potente.
Raddrizzo le spalle mentre cammino, ed in silenzio cade a terra quella che si vorrebbe fosse stanchezza, ed invece è solamente solitudine. Corrono assetati gli occhi sui dettagli del giorno maturo. I dettagli, credo di capire, sono la più sicura ed ospitale via di fuga per i sensi troppo spaventati dalla radiosa grandezza dell’intero. Come accade spesso sento scendere lento il mio stesso peso lungo gli avambracci e sforzarsi di uscire attraverso i polsi, mentre minuscoli insetti con cura e devozione si prodigano nello sforzo di sollevare le squame invisibili e resistenti della mia pelle. Una ad una. Nessun dolore in questo, ed è sospetto. Dove materia muta si organizza e si incontra nascono vita, dapprima, e dolore. Necessario. Respiro profondamente il Torrente, qualche metro sotto di me e la Città e le palpebre tese del ponte che affonda le unghie nel saluto dell’erba cresciuta alta tra il fango, dove tutti guardano ma, temo, nessuno vede. Proprio come faccio io.   
Rallento per ora, ed evito che la velocità costringa il Movimento e gli Eventi in strade divenute troppo strette e folli, dove gli spigoli di calcestruzzo nudo sibilano bui a troppo breve distanza dalle ossa e inquinano il cuore di paura. Rallento per ora.
Prosegue quindi con meno fatica il tempo, e presto sono le diritture serene e il chiaroscuro del Parco a comporre con la loro rinnovata grazia settecentesca lo sfondo dei miei gesti. Controllo istante dopo istante la violenza del respiro e dell’impatto al suolo, i battiti del cuore e la contrazione equilibrata delle fibre muscolari allineate lungo la direzione dello sforzo. Corro ma la velocità qui non significa pericolo. Assaporo, sempre attraverso il suono della ghiaia che vorrei non spostare neppure di un soffio, come muta consistenza e forma il terreno sotto di me, mi lascio avvolgere in avanti dall’intricato contrappunto dei rami che ora il cielo ricama e dispone a proprio ornamento. Disciplino la gravità e la fatica, e proseguo. Rimbalzano sempre più rade le voci e brilla il ticchettio delle ruote di qualche bicicletta. Ora l’intera Città è qualche centimetro sotto di me, e allora chissà dove sono il Torrente il Palazzo ed il cotone e la pelle. Che importa?
Si vuole mostrare il Sole a chi ha tempo e voglia di accarezzare la sua forma, ora che nella promessa d’Inverno non può più ferire gli occhi. E vedi la luce sottile correre davanti a te, troppo in fretta per poterla inseguire. Che importa?
Sfiorata ancora una volta la geometria severa e discreta dell’Architettura, vedo al gesto solenne e silenzioso del vento staccarsi le foglie. Sembrano voler chiedere scusa di tanto ingiustificato ritardo. Scendono all’unisono, guidate in apparenza da precisa ed uniforme volontà. Scendono decise e coraggiose e dorate verso Terra che le attende fresca. Insetti sacri o forse piaga e lacrime d’estate. Il suono è di applauso caldo e lontano, e lusingato il cuore accelera appena. Rapida le segue la luce che invidiosa dell’acqua vuole farsi pioggia, e leggera ed inattesa ci riesce.
Mentre il corpo attraversa il mutare della stagione ed il colore del miele si tende un braccio ed il moto non previsto altera il ritmo e l’equilibrio. Vorrei afferrare una di quelle lacrime gialle, ma fallisco nel calcolo e schiaffeggio l’aria con un suono irridente di nulla che viene spostato. Deluso il braccio ritorna ad accompagnare la fatica. Ma non sembra finita. Stavolta tocca allo sguardo scegliere una foglia e seguirla ed incredulo quasi guidarla. Fino a sentirla sfiorare il naso e posarsi ed arrendersi tra il mento e la guancia, solo scansando casta le labbra. Mentre si popola la mente delle voci della Città, di nuovo, ed il dolore la fatica e l’armonia si concedono ai sensi e penetrano sotto la pelle e fessurano i tendini portando nuova aria a nuova superficie. Così sa baciare l’autunno.

 

BIOGRAFIA AUTORE 
Jean M. Janssen è nato a Sassuolo circa ventidue anni fa. Per questi circa ventidue anni non ha fatto nulla. Al momento trascorre il tempo correndo e dicendo in giro di studiare Architettura a Parma, il che del resto è abbastanza vero.
Di recente si è fatto crescere la barba per darsi un tono.


 
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