Scritto da Simone Ghiaroni
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mercoledì 11 giugno 2008 |
Da tempo, l’antropologia sa che i concetti di pulizia, sporcizia,
ordine e disordine non sono questioni di gusto personale, né tantomeno
dati di natura, ma categorie culturali. Ciò che ci interessa qui è
l’idea che le linee ideali che dividono il pulito dallo sporco,
l’ordinato dal disordinato seguano le divisioni interne ed esterne di
una società, come la classe sociale, il genere, l’appartenenza a
determinati gruppi, la nazionalità. Così, gli stranieri e i subalterni
vengono ritenuti sporchi, impuri e contaminanti con l’inquietante
corollario di immoralità, disonestà, pericolosità sociale.
Nel 2005, l’antropologo Leonardo Piasere, massimo esperto italiano di zinganologia, pubblicava un libro dal titolo emblematico: Popoli delle discariche. Si tratta di quelli che noi chiamiamo zingari. Ma occorre andare oltre al significato letterale del titolo. Pensiamo alla relazione che si stabilisce tra ciò che realmente finisce nelle discariche e il popolo rom, che con discariche e campi preferirebbe non averne a che fare. Si vede così il nesso tra rifiuti materiali e rifiuti sociali, entrambi ritenuti sporchi, portatori di malanni, di pericolo. Non a caso, forse, negli ultimi tempi la politica si occupa, quasi senza distinguerli, degli uni e degli altri. La società industriale produce scarti materiali con la produzione e il consumo e attribuisce lo statuto di scarti a quei popoli che non si integrano in essa, che ne varcano i confini interni e esterni. Questi rifiuti non si sa o non si vuole vederli né trattarli, quindi si sceglie un’altra via: nasconderli in discariche o campi. Poi, il problema riaffiora. E si ricorre al potere purificatore del fuoco: innescando roghi nelle montagne di rifiuti o perpetrando crimini vergognosi e abietti come lanciare molotov sui campi nomadi.
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