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Sconfiggere la mafia: utopia o realtà? Stampa E-mail
Scritto da Laura Corallo   
giovedì 08 giugno 2006

È sempre difficile affrontare una tematica così complessa e rischiosa come quella della criminalità. Di fronte a termini come mafia o camorra spesso la reazione più diffusa è l’indifferenza o la paura piuttosto che il provare a conoscere e capire il fenomeno.
Nel 1996 ho avuto la possibilità di lavorare alla mia tesi di laurea con Danilo Dolci, detto anche il Gandhi di Sicilia, uno dei più grandi intellettuali italiani del ‘900 e che dedicò parte della sua vita alla lotta alla mafia in Sicilia. Dolci, sociologo ed educatore,
apparteneva a quella schiera di persone che dedicano la propria vita ad una utopia, con la differenza che lui non si limitò a sognare ma seppe capire e trasformare le cose in fatti e azioni concrete. Nei primi anni ‘50 Dolci lascia la sua città natale in provincia di Trieste per trasferirsi nella Sicilia occidentale (Trappeto, Partinico) a fianco dei più poveri,
contro la mafia, per il lavoro e lo sviluppo. Negli anni ‘50 - ‘60 affrontò la criminalità organizzata diffusa in quelle terre povere e dimenticate, utilizzando metodi nonviolenti come il digiuno e lo “sciopero alla rovescia” dove centinaia di disoccupati facevano
gratuitamente lavori di pubblica utilità, come ad esempio una strada. Fu il primo in Italia a scoprire e documentare il connubio mafia-politica per poi accusare esponenti di primo piano della vita politica siciliana e nazionale. Ma l’aspetto più interessante della sua opera è che con le sue inchieste Danilo propone un nuovo metodo di lavoro: era convinto che non può esistere alcun cambiamento senza il coinvolgimento diretto degli interessati. Se la gente conosce i problemi, li discute insieme, si sente coinvolta, allora si potranno trovare le leve per cambiare e creare sviluppo.
Tanti libri documentano le riunioni di quegli anni in cui ciascuno si interroga, impara ad ascoltare e ascoltarsi, a scegliere e pianificare. Ed è proprio grazie a questa comunicazione “maieutica” che contadini e pescatori decidono di costruire la diga sul fiume Jato, indispensabile per dare un futuro economico alla zona e per sottrarre un’arma importante alla mafia, che faceva del controllo delle modeste risorse idriche disponibile uno strumento di dominio sui cittadini. L’esperienza di Dolci insegna che le azioni repressive per sconfiggere la criminalità sono insufficienti se non sono supportate dalla maturazione nelle coscienze di ognuno di noi del senso di ribellione ed estraneità verso questi sistemi. È una rivoluzione del modo di pensare, di essere e di vivere in cui ciascuno, nel proprio piccolo, può dare inizio.

(corsivo di copertina relativo all'inchiesta su don Tano Badalamenti a Sassuolo, consultabile cliccando qui)



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