• Media e video
  • Interviste
  • Piastrellino
  • Inchieste
  • Arretrati
Schiappino Stampa E-mail
Scritto da Rosario Castronuovo   
mercoledì 30 aprile 2008

La scuola era un rifugio sicuro, il mattino mi accoglieva una maestra buona e comprensiva che, a differenza di mia madre, non mi picchiava mai. In quelle aule imparavo tutto tanto facilmente che i libri alla fine dell’anno rimanevano nuovi come quando mio padre li aveva comprati.
Uscivo dalla scuola e ritornavo a casa, mentre mangiavo tenevo un piede sotto il tavolo e l’altro girato verso la porta di casa. Pranzavo velocemente e scappavo in strada a vivere con i personaggi che trovavo in quel teatro naturale. Ritornavo a sera inoltrata, mi toccava l’usuale razione di botte quando, troppo preso dai giochi, non mi rendevo conto che si era fatto tardi.
Chiappino era il soprannome che qualche buontempone aveva affibbiato a Domenico il falegname. Capitava che, per scherzo, qualcuno chiamasse una sola volta con un soprannome una persona del paese e, se il nomignolo raccoglieva un suo pregio o difetto evidente, gli rimaneva appiccicato addosso per tutta la vita. Chiappino, ho realizzato dopo anni, perché capace di trovare soluzioni a tutti i problemi. Riusciva ad inventare incastri incredibili, come il battito rotondo dei balconi che conferiva a questi una chiusura perfetta. Chiappino, ho immaginato una chiave elegante, piccola e pregiata di un ingranaggio impossibile da aprire.
Schiappino mi chiamavano. Non c’erano ostacoli capaci di fermarmi. Visitavo spesso il falegname quando uscivo dalla scuola, portavo un poco d’allegria nella sua vita ormai faticosa a causa di un’asma che non gli permetteva di respirare bene e gli aveva regalato una tosse intermittente, e la necessità di respirare con la punta della lingua fuori della bocca. Mi spiegava come calcolava il taglio dei pezzi per costruire mobili, porte massicce, balconi e finestre perfette. Odiava piallare manici di zappe e accette perché, diceva, era lavoro senza testa. Amava il legno di castagno, anche se aveva il difetto di tingere. Per questo lo usava soprattutto per i mobili, anche se, diceva, lo aveva usato spesso anche per le “bocche d’opera”.* Bastava non fargli prendere acqua oppure dipingerlo con la nuova vernice che ultimamente vendevano alla bottega invece di dargli l’olio di lino crudo. “E’ serio il castagno. Non si spacca o cambia colore. Si conserva per secoli così come esce dalla bottega la prima volta, anche se tinge. Il legno d'abete è fesso, si ammacca ad ogni minimo contatto, il noce costa troppo e non tutti se lo possono permettere, il ciliegio è raro e chiaro ed ha un colore buono solo per i mobili …(andava avanti ad elencare per ore) per chi ha poco da spendere l’unico è il castagno”. Ogni tanto rigirava il zizimelo** messo a cuocere davanti all’uscio sul fornello a gas in un barattolo di latta che aveva conosciuto tempi migliori quando, orgoglioso, portava dentro sarde, un cibo pregiato perché diverso in quei paesi lontani dal mare. Il zizimelo lo andava a raccogliere in autunno dalle ferite sui tronchi degli alberi di prugne e melastri. Temeva i miei scherzi ma rideva anche dopo che li aveva subiti. Si affannava a creare incastri per infilare i vetri alle finestre finché non gli proposi di metterci delle strisce, magari incollarle con quella nuova colla bianca.
Rideva compiaciuto quando smontavo le sue certezze.
Poi passavo dagli anziani che davanti alle porte intrecciavano vimini e costruivano cestini, snocciolavano legumi o intrecciavano farfalle bianche all’uncinetto. Per me era sempre pronta una ficarella secca o una mela lemoncina.
Andavo dal fabbro e mentre giravo il mantice, sognavo i fuochi d’artificio del giorno della festa del Santo patrono guardando le scintille che si sprigionavano dal martello che batteva il ferro sull’incudine.
Schiappino mi chiamavano, all’imbrunire quando i contadini ritornavano dalla campagna e legavano l’asino alle ringhiere apprestandosi a scaricarlo, mi piaceva solleticarlo sotto la pancia vicino alla gamba posteriore. Il malcapitato, indifeso scalciava furioso tra le urla del padrone che si disperava per le fascine e gli ortaggi che volavano in aria. Sapevo come difendermi dai calci mettendomi tra la testa legata e le zampe posteriori in modo da non essere colpito. Nei giorni a venire l’asino scalciava e ragliava solo nel vedermi arrivare.

Mi piaceva giocare con i miei coetanei. C’erano delle classi in cui i bambini  appartenevano a famiglie di artigiani, nella mia c’erano solo figli di contadini a cui servivano due braccia, anche se piccole, per la sopravvivenza. Per questo motivo, spesso ero costretto a chiedere di poter giocare con ragazzi più grandi di me e non essere accettato. Li costringevo compiendo un semplice quanto naturale gesto, fingevo di raccogliere una pietra per terra. Ce n’erano tante in giro perché la strada era solo ghiaiata. Puntualmente avveniva il miracolo, diventavano tutti gentili e disponibili. Il figlio del capufficio delle poste rosicava chiodi amari ed a malincuore mi portava a vedere Rin Tin Tin nel pomeriggio a casa sua. Sapeva che se non l’avesse fatto, innanzi tutto avrei benedetto la porta di casa con una lunga pisciata, il giorno dopo correva il rischio di beccarsi una pietra in testa.
Era l’unica televisione del paese.
Mi temevano per colpa di un merlo che, un pomeriggio, mentre giocavamo a pallone in un campo di calcio (avevano dimenticato di tagliare la quercia al centro) che era in discesa, si fermò sul tronco di un albero adagiato nell’erba, si guardava intorno come se cercasse qualcosa. Avevo imparato presto a tirare le pietre. Ne sceglievo una piatta e rotonda, la pulivo bene con il palmo delle mani, poi la mettevo di taglio tra il pollice e l’indice, ci sputavo sopra e ci alitavo quasi a volerle dare un’anima, allungavo il braccio e chiudendo l’occhio sinistro prendevo la mira con il destro, allungavo la gamba sinistra in avanti inarcando le spalle e roteando il braccio e il polso come una catapulta, colpivo con una precisione impressionante.
Presi una pietra piatta e rotonda e lo colpii in testa. Il poverino si accasciò senza un lamento e da quel momento i compagni raccontarono l’accaduto come qualcosa d’eccezionale mitizzando le mie capacità.
A primavera andavo in giro per le campagne mentre gli uomini si affannavano ad arare i campi per la futura semina. Apparivo all’improvviso sui dirupi ,dove riuscivano ad arrampicarsi solo le capre in cerca dei germogli più teneri e profumati, allo sguardo delle donne che preparavano gli orti nella valle. Cercavo nidi, i poveri uccelli non avevano scampo perché avevo imparato come li mimetizzavano e le piante su cui li costruivano.
In estate quando finiva la scuola, andavo per le aie ad osservare la trebbiatura, e di notte mi era permesso di fare tardi, a spiare le coppie che facevano l’amore tra le grègne.

Chiamavamo “zio” tutte le persone che erano almeno di una decina  d’anni più grandi di noi. Zia Rosina era vecchia e viveva da sola in un “basso”: una stanza  al pianterreno. Quei locali erano umidi, generalmente stalle. Le buone famiglie vi facevano abitare, senza ricevere l’affitto, le persone sole e povere. Su un lato della porta si ricavava un camino, di fronte la cristalliera e la ramera, al centro un tavolo piccolo e rettangolare (la buffette), in fondo il letto con il comodino e il comò. Zia Rosina, spesso in pieno giorno, si metteva sul letto nella posizione del morto, guardava il soffitto di tavola e “partiva”.
Un giorno la mezza porta di sopra non si era chiusa bene. Le detti un colpo e s’aprì. Sulla punta dei piedi riuscivo a superare solo con gli occhi, la mezza porta di sotto. La vidi sul letto a pancia in su, ferma, con gli occhi aperti, sembrava non respirasse. Restai in quella posizione, quanto tempo non ricordo. Lentamente incominciò a muoversi quasi percepisse una presenza, si voltò verso di me, si alzò e venne ad aprirmi. Faceva di tutto per sfuggire al mio sguardo che la imbarazzava. Affermò che era andata per le grotte dove vivono i morti che sono buoni e non hanno potere sulla terra ma conoscono tutti i segreti e, se lei chiedeva, loro glie li confidavano. Il viaggio era molto faticoso, ma queste cose lei le faceva a fin di bene. Quanto più parlava tanto più si agitava perché continuavo a guardarla. La gente del paese era convinta che quando visitava il neonato di una famiglia povera, credendo che facessero fatica a crescerlo, s’impietosiva e ne provocava la morte, lo stesso destino era riservato al malato che suscitava la sua pietà. Prese dalla cristalliera una pastarella e me la diede, la mangiai con avidità, poi quasi per tranquillizzarmi mi disse: “Con te non pone. C’è un 13 e un 50”, mi aprì la porta e tornai in strada. Nei giorni successivi quando passavo davanti alla sua casa non dimenticavo mai di chiamarla per salutarla. Miracolo di una pastarella.

I più angoscianti per la mia famiglia erano i mesi di marzo ed aprile. Il Serrapotamo è un fiume che fa ridere durante l’estate, porta tanta poca acqua che a volte lascia a secco gli orti e d’inverno compie il suo dovere senza esagerare. A primavera diventa rissoso, non sai come prenderlo quando all’acqua dei temporali si unisce quella delle sorgenti e delle nevi che si sciolgono. Mio padre doveva attraversarlo a piedi, la mattina presto per recarsi a Vallina a fare il suo lavoro di fabbro e la sera per ritornare a casa. E non c’era un ponte. Al paese c’era un fabbro anziano, per rispetto mai gli avrebbe fatto concorrenza, piuttosto aspettava, per occupare il suo posto, che lui smettesse. A primavera, quando si faceva buio e mio padre non arrivava, la mamma incominciava ad avere paura che nell’attraversare il torrente gli fosse successo qualcosa e mi mandava a raccogliere qualche segnale che la tranquillizzasse.
La nostra casa era in periferia, costruita su una timpa che è la parte finale e l’unica visibile di un blocco di roccia su cui è appollaiato il paese. Mi sedevo sulla punta della timpa, lo sguardo andava verso i campi, i sentieri che cingevano le colline incrociandosi e separandosi, si snodavano dal torrente, la valle, e salivano come serpenti attorcigliati fino al paese. Riportavano a casa coloro che al mattino erano scesi per andare a lavorare nei campi. Si riempivano di un parlottio fitto con voci di tonalità diverse, spesso riconoscibili, di persone che per alleviare la salita parlavano di capre tarde a sgravare, viti che andavano a male, grano che cresceva poco, risate ed ogni tanto urla; non troverai mai un contadino sazio e felice del suo campo. Mi faceva arrabbiare la luna che nasconde e lascia intravedere; dispettosa quando cerchi di sapere per capire, si copre con un lenzuolo di nuvola e scompare. Lievita e indispettisce dopo aver chiamato all’amore strappandoti l’anima dallo stomaco. La luna che fa crescere le pance dopo averle riempite di semi. Ammantava la campagna con un velo d’argento in modo che il paesaggio s’immaginasse soltanto, facendo intravedere forme e sfumature. Non concedeva certezze.
Uno dei sentieri arrivava fino alle prime case del paese passando proprio sotto la timpa dove ero io; vedevo chiaramente i gruppi partiti in anticipo dalla campagna. C’erano dei ragazzi che, per alleviare la fatica nell’affrontare la salita, si tenevano dalla coda dell’asino che avevano davanti. La strada rotabile ancora ghiaiata, più larga, tagliava le colline di lato come fossero pani appena sfornati, a volte si nascondeva nei boschi che riempivano la terra ed il cielo.
Guardando verso la valle, di fronte si notavano puntini luminosi raggruppati o isolati, erano le case di Vallina, Senise e sulle colline quelle lontane di Valsinni e Rotondella. A destra le luci delle case in prossimità della vetta Grattaculo del monte Pollino fino a Noepoli e i suoi fianchi. Dopo un po’ incominciavo a gridare chiamando “papà, papà…” e l’eco mi rimandava la voce come se non volesse farla passare. Da lontano, sopra Calvera su uno spuntone ai confini della foresta Magrizzi, forse scambiando il mio urlo per una sfida o per affermare la sua presenza agli altri branchi sul territorio, rispondeva l’ululato di un lupo che incuteva un timore profondo e una paura istintiva e primordiale. Appena possibile mio padre rispondeva, dissipava tutti i brutti pensieri ed io, senza perdere tempo, mi precipitavo a casa per dare la buona notizia a mia madre ed invitarla a calare nella caldaia con l’acqua bollente, i rascatielli****.
Quattro volte al giorno passava il postale, percorso un tratto dritto girava sulle curve e si vedevano comparire ad intermittenza le luci dei fari che tagliavano l’aria colpendo gli alberi, ogni tanto qualche vigna e le ginestre ormai fiorite. Arrivato all’ultima salita che portava nella piazza del paese aumentava i battiti del suo cuore, si sentivano tanto forte da riempire la valle ed i vicoli, la puzza del suo stomaco di nafta invadeva tutta la collina. Giunto in piazza, l’uomo in divisa andava al bar a prendere il caffè ed a fare due chiacchiere mentre il postale riprendeva fiato continuando a brontolare. Nella fermata di ritorno, alle tredici, i bambini che a quell’ora uscivano dalla scuola, ci giravano intorno giocando a nascondino.
Quando le belle giornate lo permettevano andavo a giocare nelle grotte sotto la timpa. Ce n’erano molte ed erano il regno di pipistrelli, lucertole e serpenti. Qualche volta ci si nascondevano le coppie per fare l’amore su un letto di paglia abbondante, messa sul pietrisco del fondo della grotta. Le battaglie si susseguivano furiose, spesso mi aiutavano i briganti e i monacielli che si nascondevano nelle grotte, uscivano solo la notte per divertirsi solleticando sotto la pianta dei piedi le belle donne e provocarne risate frenetiche; per me, eccezionalmente si facevano vedere anche di giorno, perché ero l’unico che non cercava di catturarli. I contadini credevano che se qualcuno fosse riuscito a prenderne uno, per liberarlo avrebbe potuto pretendere che gli fosse svelato il nascondiglio del loro tesoro. I draghi poi erano eccezionali perché capaci di correre e volare e quando volavano bucavano il cielo.
Avevo costruito un arco con un grosso salice ed alcuni ferri di un ombrello rotto. Lo nascondevo ogni sera nella stalla, dopo averlo usato durante le battaglie contro i soldati. Un giorno mia madre riuscì a trovarlo, lo fece provare ad un ragazzo più grande di me perché ne verificasse la pericolosità e, visto che si piantava con efficacia e precisione nella porta di legno della stalla per due centimetri, me lo sequestrò. Gli indiani e i draghi che ho ucciso io in quel periodo non li ha mai uccisi nessuno. Avevo anche costruito una spada con una stecca di legno lunga appuntita, e un’altra più corta inchiodata a croce all’altra estremità.
I campi tra la primavera e l’estate si vestivano di colori molto belli. Passavano dal verde chiaro del grano con le variazioni di giallo del maggiociondolo fiorito e delle ginestre su cui spiccavano il colore fucsia dei cardi e il rosso sangue dei papaveri, al verde scuro e spesso cupo della profondità del bosco. Poi predominava il caldo oro del grano, delle stoppie e dell’erba che ingialliva sotto il sole cocente e preparava l’autunno. In questa stagione dell’anno mio padre si faceva prestare un asino da un amico, insieme facevamo il giro delle famiglie cui aveva costruito attrezzi per la cura dei campi o ferrato l’asino o il mulo. (Sperava nel colpo di fortuna di avere l’incarico per forgiare qualche ringhiera ad un “don”, appellativo che identificava un prete o un uomo ricco, per ricevere per paga dei soldi). Era il momento di ricevere la paga. Preferiva ricevere in cambio grano con cui avremmo trascorso un inverno tranquillo, se la trebbiatura era andata male per qualche contadino a causa di un raccolto scarso, si rimandava l’anno dopo oppure si accettavano legumi, qualche pollo o un maialino da crescere. Mentre ritornavamo a casa, sentivamo già le urla con cui sapevamo ci avrebbe accolto mia madre perché scontenta di ciò che avevamo raccolto.
Una sera tardi, mia madre cercava di chiudere una calza di lana grezza per mio padre, seduta davanti al camino dietro di me che mi riscaldavo accomodato sulla scannella.*** Le feci notare una grossa falena immobile su un mattone a fianco del fuoco. “E’ il nonno che sente freddo, è ritornato per riscaldarsi un poco”, rispose. Il mattino dopo la grossa farfalla non c’era più.
Il nonno, negli ultimi anni della sua vita, tutte le mattine trascinava una sedia bassa davanti all’uscio di casa fin dove era arrivato il sole. Si sedeva e si dissetava dei suoi raggi che lentamente aumentavano il calore, lo seguiva sul piazzale davanti a casa scansando l’ombra, si divertiva guardandomi giocare, con il passare delle ore se ne faceva penetrare assorbendo tutto l’alito di vita possibile. Parlava poco ma ci capivamo al volo, rideva con gli occhi, compiaciuto, ringraziava il signore per il tempo che gli aveva donato e che ancora gli concedeva.
Il nonno era morto da qualche giorno.  

Non passò molto tempo e una sera di primavera mi ritrovai seduto alla scannella, di fronte a me c’era una sedia che usavo come tavolino; non andavo più sulla timpa a chiamare mio padre, avevo appena incominciato ad imparare a scrivere. Scrivevo una lettera di cui ricordo solo qualche parola “papà ti voglio bene”.
Il postale viaggiava sempre vuoto. Raramente caricava qualche passeggero, sembrava quasi lo rubasse al paese di nascosto, alle sei del mattino nel viaggio d’andata verso i paesi della pianura, mentre riprendeva fiato nella piazza per la sosta e il suo schiavo autista prendeva il caffè, come se neanche lui volesse vedere. Qualche volta caricava un’intera famiglia, pronta a perdersi in un mare chiamato mondo, intrigante, estraneo e sconosciuto. Pericoloso! Nei primi anni ritornavano tutti per il Natale e la festa del patrono, poi sempre più raramente, fino a disperdersi insieme agli affetti ed ai ricordi.
Una mattina fredda di ottobre aveva caricato mio padre che aveva lasciato a mia madre tutto quanto fosse necessario per l’inverno: il raccolto della questua-paga, qualche lira e una promessa: ‹‹Sarebbe tornato presto e per sempre››, giusto il tempo per racimolare un po’ di soldi e far studiare i figli…..
 
*bocche d’opera chiamavano tutte quelle strutture di legno (finestre, balconi ecc.) che completavano la chiusura della casa verso l’esterno.
** Colla
** *piccolo scanno fatto apposta per i bambini in modo da potersi sedere davanti ai grandi e riscaldarsi al camino.
*** *Pasta fatta in casa

 

 

BIOGRAFIA AUTORE

Rosario Castronuovo dice di sé: “Sono nato a Teana, provincia di Potenza. Abito a Fiorano da una ventina d'anni. Ho incominciato a scrivere dieci anni fa, ho vinto molti concorsi e Premi letterari Nazionali ed internazionali. Nel 2008 sono stato scelto finalista in un Concorso Promosso dall'Università di Padova con il racconto pubblicato qui sopra. Nel 2007 ho vinto il Premio Letterario "Comune di Curno"(BG) con la poesia pubblicata nella sezione poesie e sul Sassolino di Maggio 2008”. 

 

Image
Rosario Castronuovo
 



 
< Prec.   Pros. >