Mastodontiche lische di metallo di snodano per le città. Dapprima solo nude lamine, sono state addobbate con grottesche gigantografie pacchianamente ritoccate perché il politico dimostri trent’anni in meno. Ma non sono tanto le faccie ad infastidirmi, nonostante le labbra della Santanchè mi facciano senso. Non sono nemmeno le cubitali frasi urlate accanto alle faccie, nonostante i toni siano apocalittici, melliflui o tristemente scopiazzati dalla campagna elettorale di un paese che molto avrebbe da imparare in Europa. C’è una cosa ancor più disgustosa: mi oscurano la vista, dannazione. Sono ovunque. E sono veri e propri muri. Tutto quello che sta dietro non è più. Gli spazi si restringono, la luce diminuisce; in certe zone della città sembra di soffocare, tanto è opprimente la presenza dei cartelloni elettorali. Queste palizzate ferrose sono il simbolo di ciò che la politica non dovrebbe essere.

Quando torno a casa in auto, un secondo prima di parcheggiare, giro la testa a destra, dove c’è un piccolo parchetto. In questo periodo è costellato di margherite e nontiscordardime; gli aziani impiegano venti minuti per fare venti metri, mentre intorno a loro turbina un ciclone di bambini che rincorrono un pallone. Ora, se mi giro, vedo solo enormi faccioni e gigantschi sorrisi finti. Prima il viale era un unico spazio aperto e mio. Ora c’è la strada, chiusa da un odioso muro di metallo freddo; non c’è più azzurro, né rosso, né verde, e io non ho più voglia di girare la testa. Spero solo che, dietro le stupefacenti sopracciglia di Casini, i bambini abbiano ancora la forza di fottersene. E di continuare a giocare.

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