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Scritto da Olga Paltrinieri   
domenica 16 ottobre 2011
L’undici settembre 2001, mentre il mondo andava a puttane, io ero presa soltanto dal mio personalissimo dramma. L’undici settembre 2001, mentre il resto del mondo guardava il peggior film catastrofico di inizio secolo, io me ne stavo in un parco a piangere e parlare con Andrea, Andrea che mi diceva di non essere forse più innamorato di me. Che ci fosse qualcosa di storto l’avevo capito già da un po’, da quando quel mattino mi aveva chiesto di andare a prendere un caffè dopo pranzo. (Noi due, caffè insieme, non ne avevamo mai presi, e fosse stato per me sarebbe andata avanti così, e state pur sicuri che nella mia vita sentimentale successiva mi sarei fatta un punto d’onore di non prendere più caffè con nessuno.)
L’altro elemento sospetto era stata la sua visita mattutina a Marcello: quando lo avevo cercato a casa sua madre mi aveva comunicato che era uscito verso le nove per andare dal nostro comune amico, l’anima tenera con cui tutti trovavano il coraggio di confessarsi.
A posteriori, posso pure immaginarmelo, quel colloquio: Andrea che borbotta le sue indecisioni, il povero Marcello che ascolta paziente, sbottando solo alla fine un’uscita delle sue, qualcosa come “Non dovresti consigliarti con me quando si tratta di rapporti con le donne. Io sono il vincitore del premio Sigmund Freud. Anzi, io sono il fottuto Sigmund Freud in persona.”
E a quel punto, forte dei preziosi consigli di Marcello, eccolo lì, a ripetere a me tutte le sue confuse confessioni. Ti voglio bene, non so se ti amo, forse ti amo però ho paura, blablablablabla. Devo confessare che già dopo le prime frasi avevo iniziato a lacrimare nel caffè, così eravamo usciti e ci eravamo spostati nel parco, dove avevo iniziato a lacrimare liberamente su una panchina. A un certo punto avevo persino smesso di ascoltarlo, lasciando che nella testa mi scorresse come un loop sempre la stessa canzone, quella Nothing Man che poi avrei sempre collegato a un senso di sconfitta e di moccio che cola dal naso. L’inutile chiacchierata era proseguita oltre ogni decenza di tempo ed oltre ogni mia pretesa di dignità. Lo sguardo di Andrea si era fatto sempre più dolce, finché abbandonando anche l’ultimo brandello di coerenza, se ne era uscito con una frase che al momento parve un capolavoro di romanticismo: “Andiamo al cinema?”
E anche se ovviamente non siamo andati a quel merdoso cinema, perché l’unica cosa buona di una riappacificazione è una clamorosa scopata, io in quel momento ho capito che non mi avrebbe lasciata. Per cui, dopo l’invito al cinema, siamo andati a casa mia, e lì siamo rimasti.
E dopo tutti i riti del caso, dopo un geniale lunghissimo calumet della pace, abbiamo acceso la TV. Alla TV parlavano delle torri gemelle, degli aerei, del futuro caotico che aspettava dietro l’angolo.
Nonostante tutto, l’11 settembre, con lui incollato alla mia schiena e le sue mani addosso, io ero felice.
Per cui nei vostri ricordi collettivi sul peggior giorno degli anni duemila è meglio che non mi chiediate “Cosa ricordi tu?” Perché in realtà è questo che ricordo, e ancora sorrido.



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